È in libreria per i tipi di Rizzoli “Una e indivisibile, riflessioni sui 150 anni della nostra Italia”, il volume con cui Giorgio Napolitano dopo avere scalato le classifiche di popolarità si appresta – c’è da scommetterci – a scalare anche quelle dei libri più venduti. Si tratta di una raccolta di interventi del Capo dello Stato in giro per l’Italia per celebrare i 150 anni, interventi concepiti nell’ambito di una crisi che lo ha portato a un progressivo quanto inascoltato ripetersi – come un disco rotto, fino alla svolta improvvisa di qualche settimana fa – di inviti alla coesione, al dibattito senza pregiudizi alla ricerca di soluzioni condivise adeguate alla gravità della situazione.



In questo ambito, l’intervento al Meeting di Rimini lo scorso 21 agosto viene inquadrato come un’appendice, una chiosa all’intero volume. La scelta non sorprende. Nella storia del Meeting si è trattato di un intervento storico, per contenuti e momento in cui veniva concepito. E dal punto di vista del Capo dello Stato, per chi ha potuto ascoltarlo in questi anni, si è trattato – probabilmente – del picco più alto del suo mandato, salutato dalla platea del Meeting con un entusiasmo e una sintonia davvero spontanea, entusiastica e sincera. Ricorderemo qui alcuni spunti.



La necessità di parlare un «linguaggio della verità» come sferzata a un governo già gravemente in affanno. E il monito all’opposizione: «Possibile che ogni criticità della condizione attuale del Paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo?». L’omaggio poi alla «concezione e alla logica della sussidiarietà» documentata dalla mostra del Meeting sui 150 anni. La denuncia dell’«abnorme fardello» del debito pubblico che comporta, se non ripianato, il macchiarsi nei confronti delle future generazioni di «una vera e propria colpa storica e morale». E la «stortura intollerabile» dell’evasione di cui l’Italia detiene il «triste primato».



Un intervento, pronunciato al rientro della breve parentesi vacanziera a Stromboli in cui era stato pensato, nel quale il Capo dello Stato ha voluto indicare nel metodo del dialogo per il bene comune portato avanti dall’Intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà l’esempio, merce rara, da seguire. Un appello ignorato, sino alla svolta – che è cronaca di questi giorni – che come d’incanto ha riportato di attualità quelle parole: «Non si tratta di obbedire al ricatto dei mercati finanziari, o alle invadenze e alle improprie pretese delle autorità europee». Bensì, «di fare i conti con noi stessi, finalmente e in modo sistematico e risolutivo». Insomma, il manifesto che ha portato qualche mese dopo alla realizzazione di questo governo di tregua e di larghe intese è partito proprio da Rimini.

Le polemiche sulla democrazia sospesa però non si placano, e a esse si aggiungono ora quelle per lo spread che è sempre lì nonostante il passo indietro di Silvio Berlusconi. Sarebbe però auspicabile, ora, voltare davvero pagina e cogliere in pieno questa opportunità. Che a ben vedere non aveva alternative praticabili. Napolitano se si è deciso a rompere gli indugi è stato non solo e non tanto per i numeri venuti a mancare alla maggioranza, quanto per lo stallo che aveva potuto riscontrare di persona, con grave preoccupazione per il futuro, nei rapporti fra il ministro dell’Economia e il presidente del Consiglio. Insomma, non c’è da avere rimpianti: visto lo stato dei rapporti fra Berlusconi e Tremonti l’Italia rischiava di brutto, e se la situazione ora resta ai limiti questo non deve indurci a dubitare, tutt’altro, deve convincerci semmai di esserci arrivati all’ultimo momento utile, tanto che i dubbi sull’esito finale si sono fatti davvero angoscianti.

Anzi, tutto sommato bisogna salutare con soddisfazione che, grazie soprattutto a Silvio Berlusconi (saranno stati forse i consigli di Confalonieri o dei figli Marina e Pier Silvio) il passaggio è avvenuto in modo incruento, cosicché una nuova fase può essere scritta con il contributo di tutti e per il bene del Paese. Se rimangono dei dubbi basti guardare al variopinto pantheon di quelli che si sono messi di traverso (da Feltri a Travaglio, da Scilipoti alla Mussolini, da Travaglio a Bossi) per farsi passare il dubbio da quale parte stare, con un’eccezione che vorremmo riservare alla sola onestà intellettuale di Giuliano Ferrara, non senza il dubbio – però – che sulla guerra perpetua ci abbia speculato anche lui cosicché ora rischi di mancargli carburante.

In Parlamento non mancheranno occasioni di confronto e propositività in tutta quell’enorme area su cui questo governo non si è riservato ricette esclusive. Praticamente, esclusa l’economia, in tutto il campo dei diritti, dell’istruzione, della cultura, della giustizia e dei valori non negoziabili da mettere in sicurezza. Dopo aver suonato la grancassa credo che per un po’, per fortuna, gli agitatori dovranno darsi una calmata per il bene di tutti, lasciando spazio a chi vuole dialogare e costruire e mettendo al bando, cito Napolitano nella prefazione al suo libro, «le chiusure e le rissosità distruttive». Un clima – scrive il capo dello Stato nella prefazione concepita quando ancora non poteva immaginare questa svolta politica poi avvenuta in modo così repentino – che «non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani».

No, nessun rimpianto per un Parlamento ridotto com’era a mera protesi dello schema militare imposto da maggioranza e opposizione, con i parlamentari ridotti a essere un numero e con Tremonti a negare copertura finanziaria a ogni proposta che fosse stata partorita liberamente dalle Camere. Ora invece, senza più il ricatto dei capipartito che dovranno ricandidarli, gli uomini di buona volontà potranno tornare a farsi sentire in Parlamento, in una gara sperabilmente costruttiva. In una sorta di resipiscenza collettiva a un passo dal baratro. Sperando di essere ancora in tempo.