Ancora Lega Nord, ancora bagarre, ieri. Stavolta a palazzo Montecitorio, e non a palazzo Madama, però, dove l’indegna gazzarra, severamente rampognata dal presidente del Senato, Renato Schifani, era andata in scena il giorno prima, mercoledì 15. sempre e comunque, in ogni caso, mentre il governo Monti poneva – per bocca di un solitario, e sconsolato, ministro per i Rapporti con il Parlamento, il mite (e buon cattolico adulto, cioè di provata fede prodiana) Piero Giarda – la questione di fiducia sulla manovra economica appena varata, fiducia che sarà votata questa mattina, sempre alla Camera dei Deputati, mentre il voto finale sul provvedimento economico ribattezzato, dal premier in carica, ‘Salva-Italia’ arriverà solo a fine serata per poi approdare al Senato, dove – entro la settimana, quella prenatalizia, ma l’ultima utile, per l’anno in corso – sarà finalmente varata e in via definitiva, cioè con la firma del Capo dello Stato e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.



Cosa hanno combinato, questa volta, i leghisti? Di tutto. Cartelli contro l’Ici, cori (ripetuti più volte) di “Vergogna! Vergogna!”, insulti al presidente dell’assemblea, Gianfranco Fini (apostrofato dall’onorevole del Carroccio Luca Pini di amenità come “Sei un cialtrone! Un buffone arrogante!”), il quale s’è permesso di ricordare, ai leghisti e a tutti gli altri deputati (che non sono stati da meno, visto che diversi energumeni, non nuovi a tali scene, del suo partito, Fli, si sono scagliati contro i leghisti, frapponendosi ai commessi d’aula e completando l’indecorosa sceneggiata e gazzarra), che “fischiano i pecorai, non i deputati” e pure, sempre rivolto ai leghisti, “la botte da il vino che ha”.



Il premier Monti non perde l’aplomb, nel corso della giornata, che finisce con un passaggio al Colle, dove va a presentare la manovra con le ultime modifiche apportate al Capo dello Stato, consapevoli entrambi che, sul nostro Paese, grava e si aggira uno spettro, la Grande Depressione. Anzi, Monti sottolinea la gravità del momento e, in una conferenza stampa ufficiale che si tiene poco lontano da Montecitorio, a palazzo Chigi, dice a denti stretti: “Ci sono cose che non devono farmi alcun effetto. Mi sono trovato ieri (mercoledì, ndr.) nella parte alta dell’emiciclo del Senato e ho visto dei miei conterranei (Monti cerca l’arma dell’ironia, in quanto il Professore è nativo di Varese, ma pochi la capiscono, ndr.) abbastanza vivacemente all’opera”, osserva con il suo misurato (a fatica) humour britannico.



Altrettanto misurata, ma severa, la considerazione del presidente del Consiglio sulle “resistenze” (non piccole, anzi: corposissime, almeno quanto gli interessi che rappresentano, dai tassisti ai farmacisti e giù giù, fino ai giornalisti…, ndr.) alle liberalizzazioni, ma il giudizio finale è quello: “Senza la manovra varata dal governo – ribadisce il Professore – ci sarebbero state discontinuità” nella capacità dello Stato di fare fronte agli impegni, di stare in un quadro di stabilità monetaria”. 
Insomma, il ‘mantra’ di Monti – ribadito, ieri, anche dal super-ministro alle Infrastrutture, l’ex banchiere Corrado Passera (“Siamo in recessione. Punto”) – è sempre lo stesso: il rischio-default. E’ questo, del resto, il motivo fondamentale che ha spinto schieramenti (centrodestra e centrosinistra) e partiti politici (Pdl e Pd) che, da due decenni, vivono come cane e gatto, più il neonato Terzo Polo, a mettersi insieme in una coalizione che, come dimostrano dubbi, maldipancia, insofferenze e, pure, intemperanze varie (non solo dei leghisti, cioè), è di fatto ‘innaturale’. Al punto che in parecchio – dentro il Pdl, per lo più, ma pure nel Pd – cominciano seriamente a pensare che la manovra “Salva-Italia” non basta e non basterà, a salvare il Paese. Per non dire del consenso sociale, e dei sondaggi d’opinione, fondamentali per tutti i partiti, che vedono, già ad oggi, prima ancora che venga varata, la manovra di Monti attaccata e criticata da tutti i fronti. Dalle categorie protette e contrarie alle liberalizzazioni ai sindacati. 
Della Cgil si sa, ma sempre ieri, il leader della Cisl, Raffaele Bonanni, ha detto, senza mezze parole, che “Se ci fossi io, alla Camera, non voterei la fiducia alla manovra: non è equa ma recessiva” e la Uil pensa uguale. Ieri, poi, a gettar benzina sul fuoco è tornato a farsi sentire anche la voce dell’ex premier, Silvio Berlusconi. Che, presenziando al Tempio di Adriano a Roma l’ennesima uscita pubblica dell’ennesimo libro di Bruno Vespa, avverte che “Non c’è nessuna certezza che questo governo abbia di fronte a sé tutto il tempo della legislatura, che è un breve periodo ma, in un momento come questo, qualsiasi giorno può portare a cambiamenti importanti”. Poi, però, arriva la stoccata, quella che fa male: “Monti è un disperato” e lo è perché si è reso conto che il Paese senza una riforma della Costituzione è ingovernabile e adesso è costretto a fare retromarcia su tutto”.

Il paradosso è che in questo modo l’ex premier e leader (anche se Angelino Alfano ne ha preso le redini operative al punto che, al congresso del Ppe di Marsiglia, Berlusconi ha voluto che fosse solo lui a parlare) del Pdl finisce per dare ragione a Umberto Bossi. Il quale, proprio ieri, ha detto di non volerlo incontrare “per non mettersi a ridere”: “Silvio – ha ironizzato il Senatur – appoggia un governo che fa il contrario di quello che faceva il suo”. Già, la verità è che l’alleanza tra Lega e Pdl è a pezzi e potrebbe avere conseguenze pesanti anche e soprattutto al Nord, dove l’unico filo di dialogo con il Carroccio lo mantiene, all’interno del Pdl, il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni.
L’unico raggruppamento politico che mantiene dritta e ferma la barra sul sostegno a Monti e al suo governo è il Terzo Polo. Ieri lo hanno ribadito sia il leader dell’Udc, Casini che quello dell’Api, Rutelli, ritornando anche sui ‘nuovi equilibri’ che la (media? Lunga?) durata del governo Monti potrebbe far nascere (si parla, e spesso lo fa il Corsera, del protagonismo politico di humus ‘neo-cattolico’ moderato e centrista di alcuni ministri big per peso specifico o nome: Riccardi, Passera) mentre il vice-coordinatore di Fli, Italo Bocchino, ha parlato apertamente di “nuova maggioranza”, che dovrebbe nascere tra Terzo Polo e pezzi di Pdl come di Pd, con l’esclusione di Lega e Idv. Ma se la posizione della Lega è chiara, anche nella sua violenza e virulenza fisica e verbale, e quella dell’Idv di Di Pietro anche (saranno loro gli unici due partiti che diranno ‘no’ a fiducia e manovra), nel Pd serpeggia, tanto per cambiare, la tensione. 
Bersani è molto nervoso, anche perché scopre, facilmente, il fianco alla sua sinistra. Alle critiche e al no alla manovra dell’Idv come dei Grillini, della sinistra radicale (Vendola) come di quella extraparlamentare (Prc, movimenti di base, Cobas). Il segretario democratico è riuscito a riassorbire la dissidenza interna che ieri stava per uscire allo scoperto con almeno due deputati (Boccuzzi ed Esposito) che fino alla fine volevano astenersi con l’argomento che il partito proseguirà il suo pressing su Monti per colpire le grandi ricchezze e le storture del sistema. In particolare, Bersani ha avvertito che Monti non può pensare di liberalizzare il mercato del lavoro (“l’articolo 18 non si tocca”, ha detto) e non quello delle professioni. Ma resta tutto intatto il nodo – dolente – del rapporto con Di Pietro e con Vendola, come pure il rischio di lasciare ai due concorrenti (‘di sinistra’, appunto) il monopolio della protesta e del disagio sociale.

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