Il Consiglio dei ministri di ieri ha dato il via libera al disegno di legge costituzionale per modificare gli articoli 41 e 97 della Costituzione, in linea con la cosiddetta “fase due” della legislatura, che al primo posto mette il rilancio dell’economia, la crescita e lo sviluppo. Non è stata confermata, invece, l’annunciata modifica dell’articolo 118.
«Per comprendere ciò di cui stiamo parlando – dice a IlSussidiario.net Stelio Mangiameli, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Teramo – è necessaria una premessa. Siamo fortemente in ritardo rispetto al resto del mondo sul piano delle riforme costituzionali. Questo perché si è sempre pensato che si potesse modificare, anche radicalmente, la Seconda parte della Costituzione (ordinamento della Repubblica, forma di stato e forma di governo), senza però toccare la Prima (diritti doveri dei cittadini). Questa impostazione è, a mio avviso, di assoluta retroguardia perché, al di là dell’organizzazione dello Stato, in materia di diritti il costituzionalismo ha sviluppato in questi anni una miriade di altri principi che non abbiamo recepito, avendo “mummificato” la Prima parte della Costituzione».
Data questa premessa e in base a quanto è stato comunicato, che valore culturale ha una riforma come quella che è stata proposta?
Occorre dire che, toccando la Prima parte, da tempo immemore ci si imbatte nel problema del terzo comma dell’Art. 41. Se infatti i primi due riguardano la libertà e i limiti d’iniziativa economica, il terzo comma è il frutto di una filosofia dirigista e del compromesso in sede di Assemblea costituente tra sinistra e Dc. Ciononostante, il terzo comma non è d’ostacolo a procedure legislative innovative in materia di mercato, tant’è che le privatizzazioni delle più grandi imprese nazionali sono state fatte con questo stesso comma in vigore. Stiamo parlando, in pratica, di disposizioni che dal punto di vista costituzionale si sono “atrofizzate”, anche se questo non impedisce lo sviluppo dell’ordinamento. A mio modo di vedere, perciò, l’attuale necessità di nuove libertà e tutele dovrebbe portare ad aggiungere all’Art. 41 una serie di principi. Penso a temi della tutela di consumatori, della privacy, o dell’ambiente….
In merito a questo articolo il premier ieri ha dato lettura del nuovo testo predisposto: “L’iniziativa e l’attività economica privata è libera ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”. Cosa ne pensa?
Questa formulazione soffre di un’eccessiva carica ideologica e, a mio avviso, non aggiunge nulla ai primi due commi (“L’iniziativa privata è libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”). Non toccherei nulla, anche perché se si dice che l’attività è libera fino a quando non si vieta, come diceva Kelsen, si rischia di dare con una mano e di levare con l’altra. Se la legge inizia a vietare, la libertà finisce subito.
Berlusconi ha poi aggiunto: “La legge che vieta può intervenire soltanto per la salvaguardia di altri principi fondamentali della Costituzione e il controllo sulle iniziative e le attività economiche può avvenire soltanto ex post”…
Anche questo non migliora la situazione. La Costituzione, infatti, prevede principi tra di loro profondamente contraddittori e, così facendo, si amplia la gamma dei principi che possono limitare la libertà economica privata. La formula attuale indica quattro limiti (l’utilità sociale, il non recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana), con questa aggiunta anche la segretezza, ad esempio, essendo prevista dalla Costituzione, potrebbe diventare un ostacolo. In realtà, inizio a pensare che nello staff di Berlusconi non ci siano costituzionalisti validi…
Passando all’Art. 97, Brunetta dichiara da tempo di voler introdurre il merito nella pubblica amministrazione. Il ministro ha letto ieri alcuni stralci del nuovo testo: “le pubbliche funzioni e la burocrazia sono al servizio della libertà dei cittadini e del bene comune”. Una novità importante?
L’Art. 98 già prevede che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della nazione”. Questa nuova formulazione, a mio parere, potrebbe effettivamente “completare” quella esistente e anche il riferimento al “merito” e alla “trasparenza” può essere positivo. L’argomento necessita però di un ragionamento più ampio.
In Italia, infatti, la visione della PA, è rimasta bloccata a un modello di tipo napoleonico: l’interesse pubblico viene messo al centro e viene prima di quello del cittadino, con effetti sconvolgenti anche sul piano della tutela. Il concetto stesso di legalità non è collegato alla posizione dell’individuo, ma all’interesse della PA. La conseguenza? Tutto ciò che non contrasta palesemente con l’interesse pubblico deve essere salvaguardato. Questa però è una filosofia che non corrisponde ai principi dello stato di diritto. Ecco perché, a mio parere, per avere un capovolgimento di mentalità serve qualche formulazione in più, sia in sede di Art. 97 e 98, sia in sede di giurisdizione.
Questa modifica non è quindi sufficiente?
È una proposta accettabile, ma non sufficiente per passare da una PA da “stato di polizia” allo stato di diritto. Occorrono ulteriori principi costituzionali, ma il problema è complesso, ordinamentale e di costume. La PA, infatti, inizialmente era inizialmente organizzata in modo che ognuno rispondeva di ciò che faceva. L’eccessiva sindacalizzazione ha causato però una destrutturazione che non si è ancora riusciti a sanare.
Da ultimo, l’Art. 118: il governo aveva annunciato di voler ampliare la portata del principio di sussidiarietà orizzontale, ma nella conferenza stampa di ieri non se ne è fatto cenno. Secondo quando riportato dalla stampa il governo vorrebbe intervenire sull’ultimo comma. Cosa pensa in proposito?
Occorre distinguere tra sussidiarietà orizzontale e privatizzazioni. Con il primo termine si fa riferimento alla necessità di sviluppare la capacità dei singoli e delle associazioni di dare una mano autonomamente alla società, con il secondo ci si riferisce ai mercati privati rispetto al dirigismo dell’economia. Per intenderci, si parla di sussidiarietà solo quando si tratta di attività di interesse generale. Chiarito questo punto, il passaggio dal “favorire” (vagamente programmatico) al “garantire” è notevole e presuppone i relativi strumenti. Perché se la Costituzione garantisce realmente la sussidiarietà orizzontale e Stato o Regioni trattengono per sé attività che potrebbero invece svolgere i corpi intermedi un giudice dovrebbe intervenire. Si passerebbe così da una norma programmatica a una di efficacia diretta.
L’attuale formulazione secondo lei è perciò inadeguata?
No, ma è possibile aumentarne la potenzialità. Servirebbe un cambio di mentalità dei centri di governo e una vera legislazione di attuazione. Altrimenti si garantisce una cosa che poi non si realizza.
In definitiva, qual è il suo giudizio su questo annunciato adeguamento della Costituzione?
Credo che, al di là dei rilievi fatti, sia necessario, ma non deve avvenire in via conflittuale. Serve concordia, condivisione culturale e costituzionale, altrimenti le riforme non avranno esito effettivo. L’ultima riforma del centrodestra, naufragata grazie a un referendum popolare, dovrebbe insegnarci che se le riforme vengono fatte solo per alzare lo scontro o per farne manifesto di una battaglia politica non producono alcun risultato. Se guardiamo a Francia o Germania capiamo che questo è il nostro limite storico. In quei paesi, invece, forze che solitamente si contrappongono sono in grado di trovare un accordo.