Restare attaccati al Cavaliere fino all’ultimo secondo, senza farsi travolgere nel caso la situazione precipitasse. La sfida del Carroccio si sta facendo ogni giorno più impervia. Lo si capisce dalle zampate del Senatur, graduali ma inesorabili.
Ogni giorno è una nuova zeppa: prima il “Caro Silvio, vatti a riposare, qui ci pensiamo noi”, poi il “stai alla larga da certi magistrati”, infine l’inequivocabile “anche Berlusconi ha le sue colpe…” di ieri. Un modo per tenersi aperto l’uscio e sgattaiolare fuori quando la nave affonderà. Tanto più che i sondaggi, per la prima volta, segnalano un lieve arretramento del consenso leghista perché chi va con lo zoppo, alla fine, potrebbe imparare a zoppicare. Per evitarlo, Bossi dovrà schivare almeno tre incognite, e non è detto ce la faccia.
Primo. C’è un’agibilità politica da ritrovare velocemente dopo gli ultimi incidenti. La maggioranza in puri termini numerici negli ultimi giorni sembra potersi espandere ad un margine di relativa sicurezza, sviluppi del Rubygate permettendo. Questo in teoria permette di bipassare lo stallo della bicameralina per rivolgersi direttamente al parlamento, come chiesto da Giorgio Napolitano, per approvare i vari decreti sul federalismo. Un percorso che il Carroccio ha deciso di imboccare e accettare, dopo il niet del Colle. Una pax sigillata ieri in un incontro a tre Napolitano, Bossi, Calderoli in cui la Lega ha incassato la sponda del Quirinale a patto che ci sia uno sforzo di condivisione della riforma. Il probabile voto di fiducia per mettere in sicurezza il decreto non depone a favore, ma è difficile immaginare che il Carroccio sacrifichi il rapporto con il Colle sull’altare dell’amico Silvio, nel caso si arrivasse ad uno showdown.
Secondo. C’è da sedare un malumore evidente nella base e nel blocco sociale leghista, frustrati da un approdo federale che sta partorendo un patetico topolino. Troppo insipida la minestra, se misurata con le premesse rivoluzionarie del vociante “padroni a casa propria”. Dunque enti locali al collasso, salvo il permesso di aumentare le tasse, e partite iva e padroncini alle prese con la sempiterna italietta irriformabile. Lega o non Lega al governo.
Terzo. C’è infine l’insidia più ostica perché cresce nell’ombra di un partito per un lungo tratto plebiscitario e leninista: la guerra interna al movimento e la prepotente ascesa di Roberto Maroni, sostanziata dal recente, doppio intervento sul Corriere della Sera. Il succo del maronipensiero è lampante: rompe il tabù di un centrodestra possibile anche senza il suo fondatore, denuncia l’antiberlusconismo dell’opposizione ma insieme apre ad una collaborazione quasi costituente, non fustiga l’invasione di campo della magistratura, disco rotto di questi ultimi mesi in casa Pdl. Insomma quasi un manifesto di governo prossimo venturo.
Spingendosi addirittura nella terra incognita tremontiana suggerendo revisioni del patto di stabilità per abbracciare i sindaci delusi dai tagli lineari del Tesoro, dando fiato a chi, dentro al Carroccio, non si fida fino in fondo dell’amico Giulio. La cosa colpisce perché è la prima volta che Maroni esce così allo scoperto, forte del suo gradimento “nazionale”. E questo dice molto della guerra interna al Carroccio tra generali ambiziosi, in attesa del dopo Bossi, e del nuovo protagonismo istituzionale dell’inquilino del Viminale che punta in futuro alla premiership in alternativa al tandem Tremonti-Calderoli, forte dell’asse con il Colle e il partito degli enti locali.
Lo stesso battibecco con il ministro della semplificazione, l’altro giorno non è stato un gioco delle parti orchestrato da Bossi. Il Senatur non controlla più ogni mossa interna. Per questo il suo interesse è di gestire finchè possibile lo status quo, abbracciandosi stretto a Silvio. Un’eventuale rottura aprirebbe una stagione inedita. Forse troppo, anche per un camaleonte come il vecchio Umberto…