Le divisioni e le defezioni che registra il partito di Gianfranco Fini sono la conseguenza del mutamento della collocazione politica di Fli. Il partito di Fini era appunto nato come alternativa a Berlusconi nell’ambito del centrodestra. La strategia concordata con Casini e Rutelli era quella di dar vita a un terzo polo che avrebbe “corso” da solo, in modo del tutto autonomo dalla sinistra, con l’obiettivo di essere determinante al Senato in modo tale da imporre una riedizione del centrodestra su nuove basi, e cioè senza più Berlusconi premier.
Ora però – da qui il dissenso interno – la linea politica è mutata: dopo che nel Pd sono state archiviate le ambizioni di Bersani, ormai si è imboccata la strategia del cartello elettorale da Vendola a Fini (secondo l’implicito organigramma che prevede Casini a Palazzo Chigi e D’Alema al Quirinale). Naturalmente non è un “fronte popolare” di sinistra, ma – come hanno simmetricamente spiegato sia Casini che Vendola – una “Grande Coalizione” tra soggetti che si dichiarano per il futuro alternativi e che transitoriamente depongono le armi per “liberare” l’Italia da Berlusconi.
Si tratta – ha dichiarato Bersani – di guidare una “riscossa etica e civile”. E D’Alema ha per tutti spiegato il concetto di quel che egli definisce “patto costituente”: “Una Grosse Koalition per aprire una fase nuova […]. Siamo in una situazione simile a quella del dopoguerra quando l’Italia scelse tra monarchia e Repubblica”.
A questo punto manca solo la firma del Capo dello Stato per sciogliere le Camere. Le motivazioni che vengono suggerite al Quirinale sono due: scarsa produzione legislativa e conflittualità istituzionale. Giorgio Napolitano, secondo autorevoli intellettuali antifascisti, potrebbe procedere anche senza la controfirma del presidente del Consiglio a sciogliere le Camere che pur hanno rinnovato in questi mesi la fiducia al governo.
Ma perché il Quirinale dovrebbe svolgere il ruolo di “Grande Vecchio” della strategia della “questione morale”? Ne ha i poteri costituzionali? Ne ha le convinzioni ideali per ritenere tale ruolo conforme all’interesse nazionale? È noto che “questione morale” – ovvero alleanza trasversale tra destra e sinistra in nome della “società civile” – è la piattaforma cui periodicamente ha ricorso la sinistra comunista e post-comunista quando non era in grado di vantare una propria positiva esperienza di governo.
Comunisti e post-comunisti sono sempre stati delusi dai propri ingressi nella “stanza dei bottoni” conclusisi con ingloriosa uscita di scena: la defenestrazione del ‘47 da parte di De Gasperi, il rabbioso disimpegno di Berlinguer nel ‘79, il getto della spugna da parte di D’Alema nel 2000 (infatti, il tandem D’Alema-Veltroni, che ancora primeggia nella sinistra italiana, quando i due erano insieme, uno al governo e l’altro al partito, in quei tre anni collezionò solo sconfitte: alle regionali, alle europee, alle politiche).
Ancora una volta la sinistra va oggi all’attacco puntando a vincere non per programmi da realizzare. In effetti, se per due volte non ha retto una coalizione Prodi-Bertinotti, perché può promettere capacità di governo concreto un’alleanza ancor più eterogenea da Vendola a Fini? La sinistra può però tornare a giocare la carta “morale” avendo la possibilità di sfruttare debolezza, imprudenza, superficiali estremismi e rivalità personali nel centrodestra.
Torna così a dominare non la “sinistra di governo”, ma – proprio nell’anno di celebrazione dei 150 anni di storia nazionale – la sinistra “Altra Italia”, ovvero la sinistra giacobin-azionista-giustizialista che (con i suoi più autorevoli storici come Alberto M. Banti) torna a ripetere i giudizi di Togliatti del 1931 sul Risorgimento come prefigurazione del fascismo e indica l’Italia di Mussolini come figlia dell’Italia di Giolitti e madre dell’Italia di De Gasperi.
È la sinistra che vede come fatti positivi dal dopoguerra a oggi in Italia solo aborto e divorzio, inchieste giornalistiche e giudiziarie, lotte, movimenti, libri, canzoni e film. L’intera storia nazionale è per questa sinistra solo un seguito di “occasioni perdute” tra “restaurazioni capitaliste” e “illusioni riformiste”. È la sinistra che “si chiama fuori” dalla storia nazionale e si attribuisce il ruolo salvifico, di instaurazione di un regime morale contro la specifica assenza di moralità che caratterizzerebbe la storia nazionale.
Questo tipo di sinistra è quella che lascia la porta aperta alla Lega, appunto perché condivide l’idea secondo cui l’Italia unita non va celebrata, ma processata. “Processo a Cavour” è appunto intitolato lo spettacolo andato in scena recentemente con testi di Corrado Augias e Giorgio Ruffolo che deride il Conte con gli occhialini incalzato da una pubblica accusa interpretata, nelle vesti di attore, da uno dei leader di “Mani Pulite”, l’ex pm Gherardo Colombo.
Non si capisce però perché il Capo dello Stato dovrebbe mettersi alla testa di simile filodrammatica. Quando non si condividono le prese di posizione del Quirinale, nel contestarle, si ama ricordare il passato comunista del Presidente della Repubblica. Va però anche ricordato che Giorgio Napolitano fu nel Pci sempre su posizioni filoriformiste e filoccidentali e che per questo – proprio per essersi opposto all’uso strumentale della “questione morale” – venne estromesso dal vertice del Pci.
E perché oggi dovrebbe assumere le vesti del Berlinguer da lui avversato, rischiare di avviare l’Italia a essere nella lista dei “pigs” e mettere una pietra tombale sulle voci che sempre più – da Nicola Rossi a Michele Salvati – sollecitano una evoluzione della sinistra italiana al di fuori delle “scorciatoie populiste” che hanno oggi come modello le piazze nordafricane?