Il tema della giustizia è nuovamente al centro della polemica politica di questi giorni mentre i partiti tornano a discutere e a dividersi sull’ipotesi di reintroduzione dell’immunità parlamentare.
Stefano Ceccanti, costituzionalista e senatore Pd, e Lorenza Violini, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano, ne discutono su ilsussidiario.net.



Per impostare correttamente il discorso occorre fare alcune premesse. Primo, le prerogative di cui discutiamo stanno in mezzo tra una certa strutturazione del sistema politico-istituzionale da una parte e quella del sistema giudiziario dall’altra. Se ne può discutere quindi solo dopo che si sono chiarite le due variabili.



Diverso è infatti scegliere un sistema presidenziale o semi-presidenziale, stabilizzare un governo parlamentare maggioritario o tornare a derive assemblearistiche. E diverso è ragionare in un sistema in cui solo le funzioni giudiziarie sono debolmente distinte oppure sono nettamente separate.
A seconda di queste variabili cambiano i soggetti da proteggere, le procedure e i quorum. Non si può quindi estrapolare la sola immunità.

Secondo, non si può far finta che l’immunità fosse stata usata secondo gli intenti originari del Costituente. In realtà sin dalla seconda legislatura, anziché essere usata per preservare dignità e autonomia della politica, fu usata, anche perdendo tempo in modo pretestuoso, visto che non c’era un termine temporale per decidere, in una logica di casta per proteggersi persino dall’emissione di assegni a vuoto, anticipando per molti versi le peggiori derive oligarchiche e assemblearistiche della forma di governo. Il 1993 non venne a caso.



Il problema c’è, specie se si vuole preservare, com’è giusto, l’autonomia del pubblici ministeri, ma il “tornare allo Statuto” anche in questo caso non sarebbe una soluzione perché nessuno potrebbe garantire il ritorno agli intenti originari presto traditi.

(Stefano Ceccanti, Senatore del Partito Democratico)

In merito alla proposta di riformare le immunità parlamentari, avanzata in questi giorni come “prova di consenso bipartisan” a determinati provvedimenti ritenuti di interesse generale, ha certamente ragione Stefano Ceccanti nel suo tentativo di ricontestualizzare il problema rispetto alla riforma della forma di governo e della giustizia; se questi due passi – ma principalmente il secondo – potessero essere compiuti con soddisfazione di tutte le principali componenti del Parlamento, avviare una riforma dell’art. 68 potrebbe suggellare quella pace sociale in sede politica che autorevoli voci stanno ricordando come l’atteggiamento più utile per il bene del Paese.

Se questo è il quadro generale di riferimento, può tuttavia essere utile ricordare, almeno per cenni, che cosa in concreto si propone quando si parla di riformare l’immunità parlamentare, istituto screditato agli occhi della piazza al momento di Tangentopoli, ma spesso usato anche in un passato più lontano dagli stessi parlamentari per ottenere privilegi ingiustificati (come ricorda Ceccanti, “anche per coprire l’emissione di assegni a vuoto”).

Per questo discredito, per questo uso di parte dell’immunità stessa, non era stato difficile al momento dei processi alla politica modificare l’art. 68 irrigidendo la disciplina formulata di sede di Assemblea Costituente, la quale prevedeva l’autorizzazione della Camera anche per sottoporre a processo il parlamentare, oggi necessario solo  solo per i provvedimenti limitativi della libertà personale (perquisizioni e arresti).

Le proposte di modifica costituzionale che sono oggi in discussione sono di due tipi: una massimalista avanzata dagli onorevoli Vignali, Cazzola, Versace e Volontè, che prevede il ritorno al vecchio art. 68, cioè a una autorizzazione a “procedere”  anche rispetto ai processi, e una più contenuta, ma non per questo meno interessante, che consentirebbe alla Camera non di bloccare i giudici in modo definitivo, ma solo di sospendere il processo al parlamentare per la durata del mandato.  

Quest’ultima proposta prevede anche una sorta di discrezionalità ultima della Camera nel prendere la relativa decisione: si prevede infatti che il giudice, prima di sottoporre a procedimento penale un membro del Parlamento, ne dia comunicazione alla Camera di appartenenza la quale, entro 90 giorni, decide se disporre, a garanzia della libertà della funzione parlamentare, la sospensione del procedimento per la durata del mandato.

Questa formula indeterminata sembrerebbe intesa a premettere una decisione ultima in sede parlamentare, senza che sia possibile – come accade oggi – che il diniego pro tempore dell’autorizzazione  a procedere dia luogo a un conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, con tutti i problemi che tale ulteriore livello di giudizio pone oggi.
In sostanza, meno garanzie per i parlamentari – che sarebbero protetti solo per la durata della legislatura e non senza limiti – ma anche più spazio di manovra per il Parlamento, in quanto espressione diretta del popolo sovrano.  

(Lorenza Violini, professore ordinario di Diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Milano)