Il voto di ieri della Commissione parlamentare per l’attuazione del federalismo fiscale merita qualche chiarimento. Da un punto di vista politico il suo significato è abbastanza chiaro e mette in luce la situazione di stallo in cui attualmente si trova il governo. Il margine di voti che la maggioranza può vantare è oggi estremamente risicato e questo comincia a produrre i suoi effetti di logoramento nelle attività svolte in commissione, all’interno delle quali la logica della chiamata alle armi, efficace nei voti di fiducia in Aula, evidentemente non funziona.
Che ieri dalla Bicamerale il governo sia uscito sostanzialmente sconfitto su un punto centrale del suo programma la dice lunga sul fatto che una maggioranza che vive in Aula su una manciata di voti non può – per pure ragioni strutturali – proiettarsi efficacemente anche all’interno delle commissioni. E questo porta con sé un rallentamento naturale dell’azione di governo e la necessità di trattare su tutto con tutti.
Ciò che stupisce, semmai, è che, a fronte di questa situazione di impasse, il Governo abbia ritenuto di procedere comunque, decidendo in Consiglio dei Ministri di adottare il decreto sulla fiscalità municipale, cui la commissione aveva dato parere negativo, e di trasmetterlo alla Presidenza della Repubblica per l’emanazione.
Il che appare singolare – e dà la misura della situazione – se si osserva che di per sé il voto di ieri non avrebbe significato la bocciatura dello schema di decreto presentato dal Governo sul federalismo fiscale, ma soltanto un rallentamento della sua approvazione, sempre che il governo avesse voluto insistere nel suo progetto.
Per cogliere in pieno il senso di questa vicenda di ieri a questo punto è necessario mettere in chiaro alcuni punti.
La legge delega del 2009 – e cioè la legge sul "federalismo fiscale", che ha assegnato al governo il compito di riscrivere il sistema della finanza pubblica con una serie di decreti delegati – ha previsto, per l’adozione di questi decreti, un iter particolare, per cui il governo potrebbe procedere solo dopo un complesso meccanismo di consultazioni, che coinvolge le commissioni parlamentari permanenti (prima fra tutte la Commissione Bilancio) e due organismi creati ad hoc dalla legge: una commissione parlamentare (o bicamerale) sul federalismo fiscale (art. 3 l. 42/2009) e una commissione tecnica paritetica (art. 4 l. 42/2009).
Si tratta di un procedimento non dissimile, nella logica, da quello previsto in via generale per l’approvazione di tutti i decreti legislativi (l. 400/1988), ma caratterizzato da due elementi ulteriori: e cioè dal fatto che nella legge del 2009 sono state previste consultazioni aggiuntive rispetto a quelle ordinarie; e in secondo luogo dal fatto che vengono previsti alcuni aggravamenti procedimentali in caso di parere negativo delle commissioni.
Il voto di ieri era il voto della commissione bicamerale e cioè di una commissione governata da un regolamento per cui (art. 7) «in caso di parità di voti la proposta si intende respinta». Quindi, se politicamente il voto di ieri è stato un pareggio, tecnicamente un pareggio non è stato.
La proposta del governo, infatti, non è stata approvata, sicchè il voto di ieri si è risolto in un parere negativo della Commissione, che ha respinto la bozza di decreto.
Si può fare questione – come si è fatta ieri – della opportunità per il presidente della commissione di esprimersi e votare, quando le prassi parlamentari vanno in tutt’altra direzione. Ma ciò non toglie che, con o senza voto del presidente, la proposta non sarebbe passata e che il voto della commissione sarebbe stato comunque negativo.
Di fronte a questo dato di fatto, c’è qualcosa di stupefacente e qualcosa di divertente.
Di stupefacente c’è che si sia potuto dire che il governo avrebbe potuto adottare il decreto non avendo la commissione espresso alcun parere. Regolamento alla mano la commissione si è espressa. E si è espressa in senso negativo.
Di divertente c’è che il parere della commissione bicamerale è e non può essere altro che un parere consultivo. Non vale cioè a condizionare il prosieguo del provvedimento, ma fornisce semplicemente al governo un elemento in più per valutare l’opportunità delle scelte riassunte nel provvedimento stesso. Tanto è vero che, nel caso (art. 2 co. 4) le commissioni coinvolte non si pronuncino, perché impegnate a fare altro, la legge vuole che il Governo possa andare avanti comunque, passando direttamente alla adozione del provvedimento 60 giorni dopo la trasmissione alle camere. Ed è questa la norma su cui fa leva la maggioranza per giustificare la propria scelta.
Piuttosto, nel caso in cui la commissione si pronunci e dia parere negativo – e questo, ripeto, è quanto è successo ieri – il Governo, se vuole procedere in difformità dall’orientamento delle commissioni, ha l’onere (è sempre lo stesso art. 2 co. 4 a spiegarcelo) di ritrasmettere un testo, diverso o emendato, alle Camere; presentarsi alle camere per esporre la propria posizione; dopodiché, 30 giorni dopo questa trasmissione, può procedere ad adottare definitivamente il decreto.
Com’è facile vedere, si tratta di un procedimento estremamente complesso, fatto di rinvii e navette tra governo e commissione, ma che nulla avrebbe tolto alla possibilità per il governo di procedere alla adozione, a prescindere dagli esiti delle consultazioni parlamentari.
Sul governo, semmai, dopo questo voto, gravava un onere procedimentale e cioè quello di presentarsi ancora alle Camere e cercare il consenso di queste, fermo restando che, decorso il termine di legge e a prescindere dal voto delle camere, il governo avrebbe potuto adottare comunque il decreto nella logica dell’art. 76 cost.
In realtà, la scelta di adottare direttamente il decreto, trasmettendolo alla Presidenza della Repubblica per l’emanazione, è una scelta estremamente rischiosa, dal momento che, come è facile immaginare, il decreto, appena entrato in vigore, sarà condotto innanzi alla Corte costituzionale per violazione dell’art. 76 e della disciplina dettata dalla legge per la sua emanazione.
Non solo, ma una scelta del genere pone la Presidenza della Repubblica in una situazione delicatissima, dal momento che qui ci si trova di fronte a un vizio procedimentale nella formazione dell’atto che rientra a pieno titolo nella sfera di controllo del Quirinale e che nessuno ha mai contestato. Il che – è facile intuire – rinnoverà le polemiche di qualche tempo fa sull’estensione dei poteri di controllo della Presidenza della Repubblica nei confronti dei decreti governativi. Solo che in questo caso non si farà questione del concetto, elastico, di "necessità e urgenza" – come al tempo del caso Englaro – ma si farà questione di un vizio attinente la formazione dell’atto. E cioè su un vizio facilmente riscontrabile.
E allora perché tanto clamore su un voto in commissione che, già in premessa, non poteva essere determinante? E perché adottare un provvedimento che dovrà passare attraverso il controllo della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale? Per una ragione molto semplice, e cioè per il fatto che, soprattutto nei giorni scorsi, si è cercato, da parte di alcuni settori della maggioranza, di alzare i toni, accendendo i riflettori sul voto di ieri come se si trattasse dell’ultima spiaggia e creando un’aspettativa sproporzionata sull’esito di questo voto.
Se questo non fosse stato fatto, il voto di ieri sul federalismo municipale avrebbe potuto rientrare nella normale dialettica che si instaura tra maggioranza e minoranza quando in parlamento non c’è una maggioranza forte e definita. E, seguendo il procedimento messo nella l. 42/2009, sarebbe stato sufficiente ripresentare il decreto alle camere, passare per il dibattito in aula, e attendere 30 giorni dalla presentazione del decreto. In altre parole, il decreto ripresentato oggi avrebbe potuto essere adottato ai primi di marzo. E questo non sarebbe stato la fine del federalismo fiscale e neanche del governo.
Oggi, invece, ci troviamo di fronte a un decreto traballante, che creerà problemi al Governo nei rapporti con la Presidenza della Repubblica e che, in caso di emanazione, finirà subito davanti alla Corte costituzionale.
Le risposte possono essere molte. Ma viene da chiedersi perché il Governo non potesse aspettare. E le risposte sono tutte politiche.