Con il Cdm straordinario di ieri il governo ha dato il via libera al disegno di legge costituzionale di riforma della Giustizia. Il ddl prevede, in sintesi, la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri e la creazione di due Csm presieduti dal Presidente della Repubblica. Sottopone poi l’obbligatorietà dell’azione penale a “criteri indicati dalla legge” e istituisce la responsabilità civile dei magistrati. Una svolta “epocale” secondo la maggioranza, un disegno “punitivo” secondo l’Anm, che ha subito annunciato di non escludere alcuna forma di protesta.
«Occorre premettere a qualsiasi analisi che la riforma era assolutamente necessaria – dice a IlSussidiario.net Stelio Mangiameli, professore ordinario di Diritto costituzionale presso l’Università di Teramo -. I cittadini italiani vivono da anni una situazione di oppressione a causa dell’abnorme quantità di processi pendenti dinnanzi ai tribunali civili, penali e amministrativi del nostro Paese. Se si fa un confronto con gli altri Paesi europei il livello di inefficienza, a parità di spesa, è inaccettabile e limita fortemente gli investimenti esteri. Non è però soltanto un problema di amministrazione fallimentare. Si registra infatti anche una pericolosa contrarietà della giurisprudenza sulle questioni poste dalla legge che, tra l’altro, non fa che aumentare il numero dei contenziosi. Le più diverse valutazioni su casi simili, infatti, portano le parti a continui ricorsi nella certezza che tutto possa accadere.
Fatta questa premessa, a mio parere, il limite maggiore di questo ddl è quello di essere stato presentato in un momento in cui lo scontro politico è ai massimi livelli ed è centrato sulla figura del Presidente del Consiglio. Il fatto che l’opposizione abbia dichiarato la sua contraddittorietà prima ancora che il testo fosse presentato è una conseguenza molto negativa. Ritengo infatti che la riforma debba rimanere il più possibile fuori dallo scontro, permettendo così di discutere e migliorare il ddl. A una prima analisi mi sembra accettabile, anche se in alcune parti lo ritengo fin troppo debole e di retroguardia».
Come giudica la separazione delle carriere di magistrati requirenti e magistrati giudicanti?
Lo dico con chiarezza, la separazione delle carriere è un’idea di grande civiltà e democrazia. Non a caso negli altri paesi, pensiamo ad esempio alla Germania, è prevista ed è considerata ineliminabile. Da noi, a causa di una tradizione che risale al Fascismo, la situazione è opposta: unicità delle due figure e un solo Csm. L’Assemblea Costituente, a mio modo di vedere, non poteva assolutamente prevedere una così forte politicizzazione e sindacalizzazione della magistratura e non ha perciò previsto questa distinzione, accettando molti elementi della tradizione precedente. Detto questo, sorge però un problema.
Quale?
Gli articoli 6 e 7 del disegno di legge costituzionale, che introducono gli articoli 104-bis e 104-ter della Costituzione, modificano la proporzione tra la componente togata e quella laica di nomina parlamentare all’interno dei Csm, che a questo punto diventano due. Si passa in pratica da un rapporto due terzi/un terzo a un rapporto di parità. Non è facile prevedere quali effetti potrebbero esserci, anche se l’autonomia del “sistema Csm”, aumentando la componente politica, viene sicuramente attenuata.
Secondo lei il meccanismo del sorteggio dei componenti del Consiglio è punitivo nei confronti dei magistrati?
È evidente che la tecnica del sorteggio sconvolge il gioco delle correnti interne alla magistratura, ma non per questo può essere definita punitiva. Una maggiore autocritica da parte di chi ha politicizzato l’elezione del Csm, ha inteso la magistratura come corpo politico e ha cercato agganci all’interno delle forze politiche per interessi corporativi mi sembra invece necessaria. Ci si dimentica infatti che i magistrati hanno eliminato tutti i concorsi interni, permettendo così di raggiungere ruoli di vertice senza il necessario livello di studi. Infine, non bisogna confondere l’autonomia con la separazione, ragione per cui è prevista l’eteropresidenza del Csm da parte del Presidente della Repubblica.
Come dicevamo all’inizio, d’altronde, il campo è minato dalle polemiche. C’è un passaggio in questo ddl che ne risente in maniera evidente.
A cosa si riferisce?
Quando si scrive che “I consigli superiori non possono adottare atti di indirizzo politico, né esercitare funzioni diverse da quelle previste nella costituzione” (Art. 8 del ddl) il riferimento alle polemiche con il Csm è sottointeso. Tutto ciò è motivato dal fatto che a volte sono stati oltrepassati i limiti e sono stati espressi giudizi su alcuni disegni di legge o assunte posizioni di ordine politico sull’attività del Governo o del Parlamento. Queste cose non fanno bene alla riforma. Ritengo invece positivo il fatto che la magistratura onoraria venga ampliata. Il sistema della magistratura togata si è rivelato spesso insufficiente e bisognoso di apporti. All’estero il caso spagnolo ci insegna come siano possibili apporti più dinamici e una migliore integrazione ad esempio tra il mondo della magistratura e quello dell’università.
Cosa pensa invece dell’introduzione della responsabilità diretta dei magistrati?
Sono assolutamente d’accordo. Gli italiani si espressero chiaramente sull’argomento con un referendum popolare proprio perché avvertivano come ingiusta questa totale mancanza di responsabilità da parte dei giudici. D’altra parte non si capisce come mai la Legge 117/1988 in oltre vent’anni non abbia mai portato alla condanna di un solo magistrato. Dobbiamo davvero credere che non abbiano mai sbagliato? Non solo, la celebre sentenza Traghetti del Mediterraneo (C-173/03) della Corte di giustizia dell’Unione europea portò lo Stato italiano a una condanna. Questo proprio perché in nome di una legge interna che limita la responsabilità dei magistrati può darsi luogo invece alla responsabilità dello Stato per violazione del diritto europeo da parte dei giudici.
Secondo lei è lecito sospettare che questo ddl sia stato concepito come un primo passo in vista di una più decisa sottomissione dei pm al potere politico?
Non posso sapere se il governo ha nel cassetto una seconda proposta. Sinceramente però mi sembra un processo alle intenzioni. Riguardo all’obbligatorietà dell’azione penale, ad esempio, la formula “secondo criteri stabiliti dalla legge” non significa che l’ufficio è sottoposto a una misura di tipo gerarchico o a una sottoposizione effettiva. Significa invece che il Parlamento, nell’esercizio della sua funzione legislativa, può indicare alcuni bisogni in riferimento alla situazione del Paese. A questo si collega il nuovo ruolo del ministro della Giustizia: viene costituzionalizzata infatti la sua funzione ispettiva ed è chiamato a riferire in Parlamento. L’Aula valuterà se esprimersi, ad esempio, sul fatto che si spendano più risorse per reati economici piuttosto che per reati di magia. In ogni caso non si può parlare di una “dipendenza funzionale”.
All’inizio del suo ragionamento ha espresso un parere positivo sul ddl indicando però delle mancanze. Su questo piano quali sono le sue più grandi perplessità?
Occorrerebbe una definizione più chiara del rapporto giudice-pubblico ministero-polizia giudiziaria, essenziale anche per liberare il pm dall’errore storico in cui è caduto con la riforma del Codice di Procedura Penale. Manca del tutto poi il tema della giustizia nei confronti della pubblica amministrazione. Uno stato di diritto si basa infatti sul riconoscimento dei diritti fondamentali dei cittadini e sulla tutela dei diritti fondamentali nei confronti dello Stato. Bisogna ammettere che, nonostante alcuni pasticci, il testo della Bicamerale D’Alema in questo era più completo.
(Carlo Melato)