Per Giorgio Napolitano la celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia è uno dei fatti più rilevanti del suo settennato e il discorso che terrà il 17 marzo non sarà certo banalmente retorico. Sicuramente ha di fronte un compito non facile dato che questa ricorrenza si sta svolgendo in modo molto disordinato (basti pensare alla “querelle” dell’ultimo minuto sulla festività o meno in una data che era ben prevedibile da anni) e rischia di essere un’occasione perduta.



Il disordine ha un’origine essenzialmente storiografica e riguarda l’attuale prevalente uso politico strumentale dell’insegnamento della storia nelle scuole e negli atenei. La nostra storia è tra le più brevi d’Europa e naturalmente più politicizzata e strapazzata. La “macchina del fango” sull’unità nazionale non è però da ricercare nella Lega. Certamente dagli esponenti leghisti  sono venuti segni negativi. Ma privilegiare la polemica nei confronti della Lega rischia di essere uno specchietto per le allodole in quanto il veleno e l’inquinamento storiografico vengono soprattutto da certa sinistra che ancora oggi vuol perpetuare un clima da “guerra civile” negli italiani mantenendo la scala di valori della lettura classista della nostra storia nazionale.



A che cosa abbiamo assistito infatti in questi ultimi due anni intorno al 150°? A due operazioni cosiddette “storiografiche”.

La prima è diretta contro gli storici “cattolici” e cioè a cristallizzare il principio secondo cui dagli storici cattolici (salvo il segmento “dossettiano”) può venire solo una lettura “di parte” della storia d’Italia e del Risorgimento. I cattolici dovrebbero essere considerati una sorta di “letteratura del dissenso” da tenere lontana dalla vista degli studenti.

La seconda punta a celebrare la validità e superiorità etica dell’opposizione di sinistra nella storia d’Italia: “minoranze virtuose” contro una popolazione priva di senso morale a causa della mancata riforma protestante e rivoluzione giacobina. E quindi: da Cavour a Berlusconi, passando per Giolitti e De Gasperi, solo una filiera di negatività o fallimenti.  E’ così che in questi giorni siamo al paradosso di vedere sui più importanti mass media indicati come storici non attendibili, di “serie B”, chi ravvisa momenti di guerra civile nel Risorgimento ed invece come storici autorevoli, di “serie A” – i cui testi vengono adottati a tappeto – chi stabilisce (come già Togliatti 1931) un legame diretto tra Risorgimento e fascismo persino nelle leggi razziali.



Che il patriottismo italiano sia tema obiettivamente difficile e controverso è indubbio. Le guerre d’indipendenza non ci videro brillare: la prima fu persa e le altre due furono “vinte” grazie all’aiuto straniero.

In particolare il “caso  italiano” è  quello di una nazione in cui nel corso del Novecento – in ogni dopoguerra – il passato è stato messo in blocco sotto accusa e la Patria precedente è stata processata, condannata e rifiutata con una radicalità che ha originato o ha sfiorato una “guerra civile”.

Al nostro patriottismo manca un “minimum” di memoria condivisa perché quella italiana è soprattutto una memoria traumatizzata da una serie di dopoguerra non “gloriosi” nel segno di “Vittoria Mutilata” dopo la Grande guerra, “Morte della Patria” nella seconda guerra mondiale e “Tangentopoli” alla fine della “guerra fredda”.

A guidare questo tipo di insegnamento è stata la storiografia dell’Insmli che ha come “credo” e “mission” quella che il suo presidente Giorgio Rochat sull’onda del ’68 definì la “lezione” del suo predecessore Guido Quazza e cioè: “La sottolineatura della continuità della società e della politica italiana da Giolitti a De Gasperi attraverso Mussolini: una continuità tra scelte moderate e nazionaliste, in cui la Resistenza rappresenta un momento di rottura democratica”.

Questa condanna dell’Italia repubblicana si è quindi aggravata e consolidata con la fine della “guerra fredda” negli anni novanta, quando si ebbe il terzo dopoguerra del Novecento e la conseguente nuova messa in stato d’accusa dell’intera storia nazionale precedente: dopo la “Vittoria Mutilata” del 1919 e la “Morte della Patria” del 1943, nel 1992, all’indomani della scomparsa dell’Urss, si ha “Tangentopoli” ed in Italia il dopo “guerra fredda” – come osservò Lucio Colletti – vede “sul banco degli imputati i partiti democratici e sul banco dei giudici i comunisti”. La fine della “Prima Repubblica” si traduce in un giudizio negativo che allinea insieme Italia liberale, fascista e repubblicana.

In realtà il patriottismo esiste tra gli italiani. Proprio perché abbiamo avuto dopoguerra non gloriosi, è a partire dalle ricostruzioni realizzate unitariamente, da Nord a Sud, che vi è un sentimento di appartenenza, di identità e di orgoglio. L’identità positiva, lo spirito di solidarietà, la ricerca di una competitività con storia, cultura e territorio comuni e specifici significa però avere una considerazione rispettosa dell’intera storia nazionale e, soprattutto, non vedere il mondo del lavoro come un girone infernale di sfruttati e profittatori, significa rendersi conto che lo sviluppo economico non è stato automatico e trainato, ma ha visto anche laboriosità e innovazione eccezionali.

Ciò è però inaccettabile per i cultori dell’Altra Italia che insegnano la storia d’Italia come una catena di “illusioni riformiste” e “conati autoritari”: un susseguirsi di regimi politici negativi  coltivando il mito delle “occasioni perdute”, del “paese mancato”, secondo cui le eccezionali ricostruzioni nazionali sono state infami restaurazioni capitaliste. Siamo un paese senza patriottismo perché insegnati con una storia nazionale di cui vergognarsi e in cui salvare solo – a macchia di leopardo – lotte, movimenti, ribellioni, inchieste giornalistiche e giudiziarie, libri, canzoni, film.

È cioè predominante nell’insegnamento una lettura della storia d’Italia senza soluzione di continuità con la lettura classista che perpetua la diaspora tra Italia e “Altra Italia” con una eccezione di infamia che allunga la sua ombra su tutti i “vincitori” della storia d’Italia.

Abbiamo quindi di fronte il tentativo di celebrare in questo 150° da un lato la ghettizzazione della cultura cattolica appunto come “storiografia del dissenso” e dall’altro il primato di un insegnamento della storia d’Italia secondo la galleria di “buoni” e “cattivi” a suo tempo definita dalla storiografia comunista. Riuscirà Giorgio Napolitano a svelenire questa ricorrenza?

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