A fare le celebrazioni sono stati tutti dei campioni. Il 17 marzo scorso avrebbe rischiato la fucilazione chiunque si fosse permesso di aggrottare le ciglia sull’unità di Italia. Sono bastati però pochissimi giorni, nemmeno una settimana, e un po’ di barconi di immigrati tunisini a spazzare via in un colpo solo mesi e mesi di retorica. Anche un bambino era in grado di capire davanti alla tv come quei 6-7-8 mila immigrati sbarcati a Lampedusa fossero un problema di tutto il Paese, visto che in quell’isola, che ha poco più di 5 mila abitanti, non potevano stare. Ma quando il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha chiamato le Regioni per dire: dobbiamo risolverlo insieme, anche perchè qui rischiamo lo sbarco di almeno 50 mila profughi libici in fuga dalla guerra, i cantori dell’Italia unita se la sono data subito a gambe levate.
Sulla carta – come si fa quando conta più la retorica della realtà – tutti hanno detto sì. Un minuto dopo però dal canale di Sicilia alle Alpi ognuno ha trovato un buon motivo per tirarsi fuori. Prima le regioni: Sicilia, Calabria e Puglia hanno già detto che certo non toccava a loro, perchè di immigrati ne hanno ricevuti abbastanza in questi anni. L’Abruzzo ha spiegato che dopo il terremoto del 2009 certo non era a quella porta che si poteva bussare. La Campania ha posto l’out-out: o rifiuti o vu cumprà, perchè i due problemi insieme rischiano di diventare esplosivi.
Il Lazio ha detto sì, ma ora no: la Regione è già impegnata a ricevere due milioni di pellegrini per la beatificazione di Giovanni Paolo II, e mica può aggiungere anche 5 mila libici o giù di lì. Naturalmente pellegrini e profughi sono due cose ben diverse: i primi portano soldi, arrivano e ripartono. I profughi in effetti non spendono, ma costano e rischiano di rimanere a lungo. Il sindaco di Roma ha spiegato che lui non ha posti dove tenerli, quello di Milano ha detto più o meno le stesse cose a ruota.
La Valle d’Aosta è disposta a prenderne una cinquantina, la Sardegna forse qualcuno, ma dopo la stagione turistica altrimenti lì non viene più nessuno. Il Veneto ha detto: “un conto sono i profughi, un conto i tunisini, che vanno rispediti a casa loro perchè lì non c’è la guerra”. Insomma, i cantori dell’Italia unita si sono messi tutti insieme a risolvere il problema, e hanno dato tutta la loro disponibilità a farlo, però a casa del vicino perchè purtroppo da loro non c’è posto. Né più né meno di quel che hanno detto gli altri grandi cantori, quelli dell’Europa unita: ma certo, c’è nel Mediterraneo l’emergenza umanitaria, e il mare si riempe di barconi della disperazione, ma che può fare il Belgio, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Finlandia, la Spagna se i disperati preferiscono approdare sulle coste italiane? E quindi, che c’entra l’Europa?
Solidarietà all’Italia, cui capita questa sfortunata disavventura. E anche se è vero che Roma non si è fatta in quattro quando in migliaia cercavano di passare in Spagna dalle enclavi di Ceuta e Melilla (quando il democratico Josè Louis Zapatero risolse a modo suo, sparando addosso ai disperati) o quando i guai capitavano ad altri, magari via terra, è chiaro ormai che la tragedia dell’Africa del Nord stia diventando la cartina al tornasole della fragilità dell’Occidente e dei suoi miti.
Non è una data-come quella del 17 marzo, o una sfarzosa e compassata celebrazione che può tenere insieme il Paese e proteggerlo dalla sua disgregazione. Come non era l’unione della moneta unica (per altro anch’essa assai fragile visto che non si è caricata sulle spalle i debiti di ciascun paese) a trasformare 27 paesi in un corpo solo. Non era pura teoria cercare di costruire l’Europa partendo dalle sue radici, e cioè proprio da ciò che aveva unito nella realtà il suo corpo secoli prima. Non diverso è per l’Italia, perchè le sue radici non sono né in Mazzini né in Garibaldi, ma in quella storia cristiana che aveva già fatto un paese solo pur quando era diviso in staterelli.
Con quella storia presente è possibile guardare la realtà e affrontare anche una situazione difficile come quella che esiste oggi nel Mediterraneo. Sembra invece che in tutti gli schieramenti politici si preferisca sventolare bandiere e leggere il reale con slogan che non sono in grado di ingabbiarlo.
Con questo metodo per settimane si è preferito raccontare favole sul profumo di democrazia della rivoluzione dei gelsomini. E invece i tunisini cercavano altro profumo, quello del pane. Che laggiù manca e qui no…