Per referenze, contattare un qualche abitante di Veggiano. O di Monteforte d’Alpone. O di uno dei tanti Comuni veneti finiti sott’acqua nell’autunno scorso. Molti dei quali ritrovatisi a mollo pochi giorni fa. Prima di fregarsi le mani per le mirabolanti promesse del Cavalier GPM (Ghe Pensi Mi), che ha promesso di trasformare la loro isola da discarica umana a novello Eden, la gente di Lampedusa faccia una telefonata ai colleghi vicentini, veronesi, padovani; e si informi dello stato dell’arte dei radiosi destini preannunciati loro dal premier.
Il quale era calato in Veneto dopo l’abissale e contestatissimo ritardo con cui il resto d’Italia, governo in testa, si era accorto del disastro; ci era arrivato dopo aver lasciato passare il regolamentare week-end, sacro alla patria; aveva fatto la sua apparizione fianco a fianco dell’Umberto Bossi, essendosi accorto sia pure ai tempi supplementari che quella era una Regione a guida leghista. E dopo essersi esibito come novello Leopardi (“dipinte in queste rive/ son dell’umana gente/ le magnifiche sorti e progressive”) garantendo agli alluvionati un roseo futuro, aveva dato loro l’annuncio di un primo arrivo di 300 milioni; un decimo del necessario, per carità, ma come acconto niente male.
Sappiano i lampedusani, giusto per regolarsi, che cinque mesi dopo di quei soldi ne sono arrivati la metà, e che in buona parte non sono stati ancora spesi perché di mezzo c’è l’immarcescibile e sempiterna alluvione burocratica delle carte da compilare. Intanto, per l’appunto, c’è stato il bis del bagno forzato; e non a causa di un imprevisto monsone, ma di una mezza giornata di semplice pioggia. Con i sindaci di tutti i colori che protestano (inutilmente) a gran voce, perché con i loro cittadini si incontrano per strada, in municipio, al bar, tutti i santi giorni, e sono diventati loro malgrado i parafulmini della protesta. Al punto che uno di loro, una signora sindaco di Veggiano nel Padovano, ha già detto pubblicamente che alla scadenza del mandato non si ripresenterà, e tornerà a fare il suo lavoro. Perché lo Stato non può trattare in questa maniera un pezzo di Stato.
Ecco perché i pacchi-dono del Cavalier GPM, ieri recapitati di persona a Lampedusa in gran spolvero mediatico, vanno maneggiati con cura: per evitare la delusione che si rivelino pacchi e basta, nel senso più deteriore del termine. Com’è accaduto a Napoli, dove l’emergenza rifiuti in queste ore si sta riproponendo per l’ennesima volta dopo gli impegni assunti dalla mascella volitiva del premier. O a L’Aquila, dove la ricostruzione rimane tuttora pressoché al palo, alla faccia delle piaggerie dei cortigiani mediatici di turno che ingaggiano perfino una falsa terremotata (ricompensata peraltro con la miserrima cifra di 300 euro) per imbastire l’indegna commedia andata in onda su Rete 4.
Ben più ricca di effetti speciali è stata la recita di ieri a Lampedusa: i cui abitanti la notte scorsa hanno potuto sognare navi, casinò, campi da golf; e adesso dovranno attrezzarsi a una nuova invasione, non più di scalcinati africani, ma di ricchi turisti pronti a riversare sull’isola una cornucopia di denari. E che tra gli altri benefit ne avranno uno negato ai loro colleghi veneti: anziché comprare casa in un’area ripetutamente a mollo del Veronese o del Padovano, il Cavalier GPM in quattro e quattr’otto ha fatto il rogito per una villa a Lampedusa. Dove, all’occorrenza, il suo proverbiale buon cuore così amorevolmente descritto dai suoi sodali potrà aprirsi, assieme alle porte della residenza, a intere comitive di rifugiati. Magari in fuga, anziché dalla Tunisia, da una Arcore troppo presidiata dai giudici.