Non accadeva da tempo che una legge riuscisse ad interpellare la coscienza di tutto il Paese, coinvolgendo persone diversissime tra di loro, a volte unite da uno stesso amore alla vita, ma altre volte inguaribilmente separate da una diversa concezione della libertà che segna un crinale drammaticamente conflittuale ed inconciliabile. Non è semplice comprendere cosa realmente unisca e cosa separi gruppi e persone nel disegno di legge sulle disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento. Un ddl che tecnicamente è indicato con il N. 2350, ma che tutti conoscono come la legge sul testamento biologico. Un nome sbagliato, dal momento che con il testamento si danno disposizioni sulla destinazione di beni che ci appartengono, dopo la nostra morte e non prima. Un nome che la morte di Eluana Englaro ha fortemente impresso nella immaginazione di tutto il Paese.



La Legge

La legge raccoglie le dichiarazioni che una persona fa al suo medico di fiducia, dopo aver parlato con lui di vita e di morte, della possibilità di ammalarsi gravemente, fino al punto di andare incontro ad una disabilità, in cui il suo stato di coscienza può apparire del tutto assente. Medico e paziente, -forse nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta neppure di pazienti-, immaginano delle situazioni che potrebbero verificarsi in un domani. Su uno scenario del tutto virtuale fanno delle ipotesi e prendono in considerazione le eventualità peggiori che si potrebbero verificare. Il clima della conversazione non può che essere amicale, la legge stessa parla di alleanza. Un’alleanza che ha un obiettivo ben preciso: la relazione di cura. Non a caso si parla di alleanza terapeutica; tra di loro non c’è alcuna contrapposizione, non c’è ombra di conflitto di interessi. Percorrono insieme un itinerario fatto di domande e di risposte, di interrogativi scientifici e di quesiti che hanno un forte impatto esistenziale.



A) Il colloquio medico-paziente. E’ un colloquio aperto che può richiedere tempi più o meno lunghi, perché le domande poste al medico richiedono la capacità di immaginare le emozioni che nascono davanti alla prospettiva della grave, e della gravissima disabilità cronica. Il medico sa di avere davanti una persona che sta immaginando come potrebbe vivere una possibile condizione di totale dipendenza dagli altri, in uno stato di non-coscienza o di minima coscienza, dove potrebbe sentire tutto senza essere capace di comunicare in modo chiaro con gli altri. Il medico nella sua lunga esperienza sa e comprende che quest’uomo pur facendo delle scelte in apparente totale autonomia, in realtà deve elaborare una serie di condizionamenti emotivi, di paure, di mostri interiori che attentano alla sua libertà, la irretiscono spingendola verso soluzioni solo che sembrano più facili ed accattivanti. L’uomo si trova ad un bivio in cui deve immaginare cosa vorrebbe fare in circostanze, che inevitabilmente gli appaiono ostili. Deve immaginare cosa farebbero i suoi familiari, di cui non ignora né la forza né la debolezza; ma deve anche provare ad immaginare cosa sarà in grado di fare la scienza in quel preciso momento. E’ un colloquio tutt’altro che formale quello che imbastisce con il suo medico di fiducia, una condizione che mette a nudo la sua anima, i suoi valori e le sue convinzioni, i suoi affetti e i suoi sentimenti. Probabilmente si chiede se i suoi vorranno prendersi cura di lui, nonostante sia diventato un peso o se invece lo abbandoneranno in qualche struttura, consegnandolo a mani estranee, forse altamente professionali, ma comunque prive di quel calore affettivo di cui nessuno può fare a meno.



Le informazioni che ci si scambia in quel momento non sono i dati asettici del linguaggio della scienza, quando parla con l’asciutta astrattezza dei numeri e delle statistiche. Sono dati che richiedono una interpretazione in cui il medico si mette in gioco per aiutare il paziente a immaginare nuove ragioni per vivere in modo diverso rispetto a quello vissuto fino ad allora. La loro alleanza non si gioca solo sul piano del dire, ma anche sul piano di un possibile fare insieme. Il medico può raccontare esperienze, sollecitare ad andare a vedere, a misurarsi con orizzonti di vita imprevisti fino a quel momento, sapendo che possono offrire nuove modalità per comunicare, per comprendere e farsi comprendere, per amare e farsi amare.

B) Una buona legge per umanizzare la medicina. La legge sul fine vita tiene conto di tutto ciò e coglie il senso e la complessità di questa alleanza, che rilancia a tutto campo: in famiglia e con il fiduciario, oltre  che con il medico. Parla di solidarietà umana e di capacità di cura in contesti che non sono solo quelli professionali. Mette in evidenza una dimensione particolare dell’esistenza, quando ci appare più fragile, valorizza la ricchezza dei rapporti umani e la loro forza. Una proposta di legge che cerca di archiviare una volta per tutta le false soluzioni che una cultura individualistica e auto-referenziale si ostina a mostrare come le uniche plausibili. E’ una legge che dice un no chiaro e determinato all’eutanasia in tutte le sue forme, attive e passive, perché dice contestualmente un si forte ed appassionato alla relazione di cura, alla solidarietà umana che accetta di prendere su di sé la debolezza dell’altro per accompagnarlo per il tempo necessario fino al termine della sua vita. Senza anticipare la morte, ma senza neppure accanirsi ostinatamente per prolungare una vita che sembra giunta al suo capolinea.

 

Due culture a confronto

 

Nella legge in questione, al di là dell’articolato tecnico, si confrontano due culture, che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono svolte nel lavoro delle commissioni, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni.

 

 – Nella posizione laica di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell’uomo, strettamente collegata al senso della responsabilità, dal momento che non c’è vera libertà senza responsabilità. E’ una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana, non per le sue capacità e le sue competenze. E chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla. In questa impostazione etica della responsabilità e etica della cura si intrecciano profondamente, come due facce di una unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio.

 – Nella posizione laico-laicista, al centro c’è quel principio di autodeterminazione, che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita ad una serie di condizioni quali la percezione del benessere, la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendono una vita più o meno degna di essere vissuta. E’ un approccio culturale in cui il bene viene filtrato attraverso un’ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono e cosa non lo è; cosa reputa vero e cosa non lo sia. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perde qualcuna delle prerogative che lui reputa essenziali. Una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e quindi pretende dalle istituzioni l’aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia depenalizzando l’eutanasia, che arrivando addirittura a proporla come un bene, con dignità di cura.

 

Giovanni Paolo II, testimone del coraggio con cui si può affrontare una malattia cronica grave e progressiva, è stato citato tante volte a proposito di questa legge, spesso a sproposito, stravolgendo il suo pensiero e la sua stessa storia personale. Nel 1995 nell’enciclica Evangelium vitae, al paragrafo 64 afferma: “Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l’esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove…. la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte…. diventa una «liberazione rivendicata» quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso, perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza….. In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell’eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine «dolcemente» alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano….”.

Mentre condanna l’eutanasia Giovanni Paolo II ne dà anche una corretta definizione, proprio come chiede la Commissione Giustizia nella formulazione del suo parere: “Per un corretto giudizio morale sull’eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati». E’ la volontà di procurare la morte che connota esattamente cosa sia l’eutanasia e per questo Giovanni Paolo II definisce con chiarezza anche cosa debba intendersi per accanimento terapeutico: ”Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia…. “

E’ l’intenzione con cui si persegue un determinato fine che prima di tutto lo connota sotto il profilo morale e per questo Giovanni Paolo II continua dicendo: “Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e universale”… La condanna dell’eutanasia si estende ovviamente a quanti la rendono possibile con la loro collaborazione: “Condividere l’intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto «suicidio assistito» significa farsi collaboratori, e qualche volta attori in prima persona, di un’ingiustizia, che non può mai essere giustificata, neppure quando fosse richiesta. ….. l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante «perversione» di essa: la vera «compassione», infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.”.

Il dialogo con i moderati che la legge non la vogliono, ma non vogliono neppure l’eutanasia. In queste ultime settimane tra il fronte di quanti sostengono che occorre una legge per dire un no chiaro e fermo all’eutanasia e quanti invece sostengono che una legge che non depenalizzasse l’eutanasia è una legge inutile, sta nascendo un altro gruppo numeroso di soggetti la cui posizione è sintetizzabile in due semplici proposizioni: No all’eutanasia, ma no anche ad una legge che inevitabilmente pone dei paletti che sembrano irrigidire il rapporto medico-paziente, il rapporto malato-familiari, ecc… Su questo fronte si stanno collocando autorevoli personaggi del mondo politico, in particolare nel Partito democratico, dove appare evidente la volontà di non rimanere schiacciati sulle posizioni radicali che chiedono la depenalizzazione dell’eutanasia. Non vogliono la legge e invocano uno stop all’attuale dibattito politico-parlamentare. Nessun passaporto per l’eutanasia, nessuna giustificazione per l’accanimento terapeutico; profonda la convinzione che la relazione del malato con il medico possa e debba costituire l’alveo naturale in cui si prendono insieme decisioni serene ed equilibrate.

La loro posizione, dopo l’intervento della magistratura nel caso Englaro e il pressing dei radicali, che si sono spinti a considerare incostituzionale una legge che dice un No chiaro e tondo all’eutanasia, corre il rischio però di rimanere un semplice auspicio, già scavalcato dalla volontà aggressiva di chi ha già spinto il paese verso una china rischiosa. Una china che inizia in modo accattivante con un inno ad una libertà senza confini, prosegue con la richiesta di depenalizzazione dell’eutanasia, per formulare la teoria che l’eutanasia possa essere considerata al pari di una terapia. A questo punto si può diffondere la convinzione che se la legge lo consente, allora è cosa buona e giusta, fino a condizionare in modo strisciante e pervasivo i malati spingendoli a chiedere la morte anticipata, per non essere e non sentirsi di peso alla famiglia e alla società.

Il no alla legge che molti di loro chiedono era lo stesso no alla legge che qualche anno fa caratterizzava il dibattito tra la gente comune, in particolare in casa cattolica, dove non sembrava proprio che ci fosse bisogno di una legge. Da sempre le decisioni quando il malato non era più in grado di intendere le avevano prese insieme i familiari e il medico di famiglia, tenendo conto dei desideri del malato e  di quanto lo sviluppo della medicina consentiva in quel momento. In linea con quanto chiedono oggi i fautori della non-legge. Ma tra ora ed allora si è posta con una virulenza straordinaria non solo la vicenda di Eluana Englaro, ma la campagna sollevata da Piergiorgio Welby, da Luca Coscioni e da altri pazienti che fino a qualche mese fa premevano per ottenere subito la legge e poter staccare il famoso e spesso surreale sondino.. Tutte persone che hanno chiesto e preteso che questa legge fosse capace di sdoganare il diritto all’eutanasia. E’ a questa pretesa che l’attuale ddl dice un no chiaro e deciso.