Ormai il sistema è consolidato. Una certa classe politica, una parte della magistratura e gran parte del giornalismo si alimentano con accuse reciproche in una autoreferenzialità insuperabile. In nome del futuro dell’Italia vengono coltivati i sospetti, enfatizzati i vizi, screditati gli avversari e indebolite le istituzioni. Personalismi e ideologie si impongono come criteri ultimi del dibattito pubblico, riducendo tutto a un’alternativa limitata al pro o contro.
Tutto questo non apre spazi alle domande che riguardano realmente il bene comune: solo raramente si parla di famiglia e di lavoro, di scuola o di impresa, mentre quasi in automatico tutto viene ridotto a questioni di schieramento partitico o personalistico e strumentalizzato per attaccare o accusare qualcuno. In questo triste gioco manca proprio quel soggetto che tutti pretendono di rappresentare: il popolo.
Il popolo che ce la fa ancora, ma a stento. Sono loro – madri e padri, lavoratori e insegnanti, professionisti e volontari – a far andare avanti l’Italia, seppur con crescente fatica. Nonostante l’assenza di reali sostegni alle famiglie, primo ammortizzatore sociale; nonostante un’enorme pressione fiscale per le imprese, motori di una possibile ripresa; nonostante una burocrazia, primo impedimento a una flessibilità reale di azione; nonostante tanti altri fattori che appesantiscono sempre di più la vita della gente (basti ricordare i 75 miliardi di euro di fatture non pagate dalla pubblica amministrazione). Certo, ci sono anche segnali di cambiamento politico. Ma sono deboli, troppo deboli.
Debole è diventato anche lo stesso popolo. La sua fatica del “nonostante” assomiglia più a una resistenza per la sopravvivenza che a una vitalità costruttiva. Ma soprattutto il popolo rischia di diventare una semplice somma di singoli individui, ancora legati da relazioni familiari o amicizie, certo, ma fondamentalmente soli, senza una socialità reale che vada oltre il privato. Così ci troviamo di fronte, da una parte, a un individualismo che cede facilmente all’illusione che la politica possa e debba risolvere i drammi della vita e, dall’altra, a uno Stato che con un debito pubblico alle stelle non riesce più – se mai ci sia riuscito – a soddisfare le attese quasi messianiche nei suoi confronti. Ma è proprio questa passività la base di quella “audience” fatta di milioni di spettatori che assistono impotenti a liti continue che in realtà non risolvono nulla.
Da dove ricominciare? Alcuni anni fa, un vasto numero di personalità italiane di cultura ed estrazione sociale diverse hanno firmato un appello per l’educazione il cui contenuto principale era una frase di don Luigi Giussani: «Se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio». In effetti, è proprio questa educazione che manca: educazione quindi, purché con questa parola non intendiamo la pura applicazione di regole comportamentali.
Educazione è il riconoscimento e la valorizzazione del bene che ogni persona è, per il semplice fatto che esiste. Educare vuol dire “portare fuori” il meglio che c’è “dentro” ogni singola persona, aiutarla affinché possa esprimere al meglio i suoi talenti e, prima ancora, quel desiderio inscritto nella sua umanità. Quando il Censis nel suo ultimo rapporto ha notato che «tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata e appiatita» non si riferiva certo a quegli istinti e quella emotività che riducono l’umanità, ma a quel desiderio di bellezza, giustizia e verità che la esaltano, e che si esprime nell’aspirazione di essere utili al mondo e al prossimo, di poter costruire una vita degna pur dentro la fatica, di condividere i bisogni degli altri: questi desideri oggi sono troppo offuscati e hanno davvero bisogno di essere “pro-vocati”, ridestati perché possano esprimere una responsabilità.
Il modo per ridestarli non è certo l’imposizione di un sistema etico o di nuove regole, bensì la proposta di una vita più creativa, più meritevole e più interessante rispetto allo “scontro tra fazioni” imposto dal quotidiano spettacolo mediatico. Ma questa riscoperta può accadere solo in quei contesti di vita condivisa – gruppi, associazioni, sindacati, movimenti – dove è possibile accorgersi che il vero desiderio di ogni persona è quello di costruire insieme, giorno per giorno, una vita più compiuta. Famiglie e imprese, opere non profit e ospedali, centri di assistenza e università: il bene comune, a cui il popolo stesso non sa più guardare, viene generato da questa socialità reciproca che valorizza il singolo e lo rende capace a sua volta di sostenerla.
«Lo Stato moderno si basa su presupposti che lui stesso non è in grado di generare», ha detto Ernst-Wolfgang Böckenförde. È per questa ragione che è utopistico pensare che la politica possa compiere una svolta senza un popolo che prenda coscienza di sé e del suo valore, richiamando la politica stessa al compito primario di servirlo. Cambiare la politica è possibile solo a chi non ne è condizionato.
Se il lavoro e l’impegno pubblico non diventano espressione di questo desiderio educato, si rimarrà soggiogati dalle condizioni politiche e sociali e non si sarà mai in grado di modificarle. Se il popolo non dimentica se stesso e recupera la fiducia nel bene che ognuno è, nella sua unicità, allora si può uscire dalla gabbia dei dibattiti apparentemente variegati, ma sostanzialmente omologati, per tornare a guardare a quei luoghi dove qualcosa di nuovo si palesa: le tante esperienze di positività intorno a noi, che testimoniano come la maggiore fedeltà a se stessi sia quella di non tradire il proprio desiderio di costruire sempre e ovunque.
Un popolo così, capace di riconoscere e indicare a tutti le esperienze positive che lo circondano, fatto da persone che si mettono insieme non per andare contro qualcuno o qualcosa, ma per costruire giorno per giorno pezzi di vita nuova, saprà ridestare una società civile caratterizzata da intraprendenza audace e paziente e da creatività coraggiosa e perseverante, indipendentemente dal colore politico al potere.
In base a queste stesse esperienze, la gente saprà anche fare le sue scelte politiche con sobrietà, cosciente del fatto che spesso è proprio il “minus malum” a essere la soluzione migliore. Rifiutando quindi di ridurre la politica a una sterile ma fastidiosa battaglia tra neo-puritani e post-libertini, costringendola invece a mettersi al servizio di una società attiva, che vive dell’impegno di ognuno per il bene di tutti.