Erano in molti ad attendere il suo intervento al termine di un fine settimana in cui il conflitto tra politica e giustizia aveva raggiunto i livelli di guardia: dalla bagarre per i manifesti di Milano ideati da un candidato del Pdl alle comunali (“Via le Br dalle Procure”), fino alla denuncia del premier di un “patto scellerato” tra la magistratura e il Presidente della Camera. E così, il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ieri sera ha scelto di esprimere il proprio disappunto inviando una lettera al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Michele Vietti. Senza mezzi termini il Capo dello Stato ha definito la vicenda milanese un’“ignobile provocazione” che deve far riflettere perché «indica come nelle contrapposizioni politiche ed elettorali e in particolare nelle polemiche sull’amministrazione della giustizia, si stia toccando il limite oltre il quale possono insorgere le più pericolose esasperazioni e degenerazioni».



«Siamo vicini al “punto di rottura” – dice Piero Ostellino a Ilsussidiario.net – o forse stiamo già attraversando una vera e propria crisi istituzionale. D’altra parte il centrodestra, dopo tanti anni, si ostina a porre il problema giustizia senza uscire dal “caso Berlusconi”, dimenticando che il cattivo funzionamento dei tribunali continua a riguardare una grande moltitudine di cittadini. Sull’altro versante invece si registra un generale impazzimento che talvolta induce alcuni esponenti a usare parole e concetti di cui, evidentemente, non conoscono il significato».



Sono stati i provvedimenti del governo Berlusconi in materia di giustizia ad “avvelenare i pozzi” della politica, come si dice in questi giorni? 

Il disegno di riforma della giustizia avrebbe dovuto essere posto in termini universali. Sono state diverse centinaia le persone finite nei guai, o addirittura in galera, per poi sentirsi dire a distanza di anni: “il fatto non sussiste”. È chiaro che però, nel momento stesso in cui sorge il sospetto, a torto o a ragione, che dietro alle proposte di riforma ci siano soltanto i problemi di Berlusconi, ogni proposta perde di credibilità. Le leggi devono essere pensate, e non solo formulate, in termini universali.



Cosa intende invece per “generale impazzimento” delle opposizioni?

Le faccio un esempio. Recentemente Walter Veltroni e Giuseppe Pisanu hanno proposto, in una lettera al Corriere, la costituzione di un “governo di decantazione”, dimenticando un piccolo dettaglio: un governo legittimo già c’è e governa perché ha vinto le elezioni e ha la maggioranza in Parlamento. Questo è un tipico caso di “bizzarria democratica”: fino a prova contraria qualsiasi tipo di governo che piombi dall’esterno sul Parlamento viola un elementare principio democratico. C’è poi dell’altro…

A cosa si riferisce?

Nel corso di una trasmissione televisiva, qualche sera fa, per rispondere alle tesi di uno degli ospiti che stava spiegando come l’abolizione dell’art. 68 della Costituzione avesse creato le condizioni per il conflitto tra sistema giudiziario e sistema legislativo ed esecutivo un giornalista ha obiettato: «Basterebbe non commettere reati!». Ma quel giornalista non sa che le leggi e le regole ci sono proprio perché esiste la possibilità di commettere reati? Perché nessuno ricorda più che l’immunità parlamentare era stata prevista dai padri costituenti per far sì che la magistratura potesse godere di piena autonomia, senza però poter interferire con la politica? Certo, se in questo Paese parlare di art. 68 significa “difendere i ladri” e definire “bizzarra” la proposta di Veltroni vuol dire difendere Berlusconi forse i pozzi sono già avvelenati…

Cosa ha pensato invece della proposta di Asor Rosa di una “prova di forza” dei Carabinieri che “congeli le Camere”, una sorta di “stato d’emergenza” che provi a restituire all’Italia la sua “profonda vocazione democratica”?

In questo caso ci troviamo davanti a un appello esplicito al golpe… Vede, sono tutti sintomi di una profonda intolleranza nei confronti della democrazia. Una parte minoritaria, ma cospicua, del Paese è infatti convinta che il “popolo bue” non capisca quali siano i propri interessi e che occorra quindi una minoranza illuminata, colta e onesta che sappia risolvere la situazione. È un’idea elitaria, totalitaria e antidemocratica del tutto inaccettabile e frutto di una concezione “azionistica” della politica.

E secondo lei, da dove si può ripartire?

Serve un’educazione civica, anche se ad averne bisogno sono soprattutto i media e gli intellettuali, e questo compito spetta ai giornali più responsabili. Lo stesso Corriere, nella situazione in cui ci troviamo, dovrebbe tornare a spiegare la democrazia liberale. Si riconosce alla sovranità popolare il diritto di esprimersi come crede e dopo le elezioni chi vince ha il diritto di governare, ovviamente all’interno di un quadro di garanzie e di limiti. Insomma, la democrazia è propria dell’uomo qualunque.

Si spieghi meglio.

Anche se in Italia con questo concetto si intende normalmente o un “cretino” o un “parafascista”, l’uomo qualunque è colui che cammina per la strada, vota e porta sulle spalle la democrazia. In un sistema democratico infatti contano le teste, non le minoranze illuminate. 

Concludendo, negli ultimi giorni si parla di “successioni” e di leadership lasciate in eredità. Angelo Panebianco però avverte: quando Berlusconi uscirà di scena l’antagonismo che ormai coinvolge gli italiani non crollerà. Se resisterà il “non riconoscimento reciproco”, mettere mano a questo bipolarismo potrebbe anche non servire a nulla?

Confesso di essere abbastanza pessimista, più che per il sistema politico-elettorale, per la struttura corporativa della nostra società. Tutte le corporazioni si oppongono, a cominciare dalla stessa Magistratura, a ogni riforma che viene proposta. E anche questa volta, purtroppo, la struttura sociale ha inciso sul governo. La maggioranza infatti non ha fatto le riforme non soltanto a causa di queste pressioni corporative, ma perché ne ha accettato la logica, ritenendo che era il solo modo di ottenerne il consenso. Penso che sia stato questo l’errore fondamentale di Berlusconi. L’unico cambiamento possibile, infatti, avrebbe dovuto passare attraverso tre promesse fondamentali, anche se mai realizzate, del ’94.

Quali?

Una riduzione considerevole della spesa pubblica, una radicale esemplificazione normativo-amministrativa e una riduzione dell’imposizione fiscale. Solo in questo modo il Paese avrebbe potuto crescere economicamente. Non solo, i cittadini avrebbero imparato a fare da sé, invece che aspettarsi ogni cosa dallo Stato. Chi non ci crede vada a leggersi la mozione che alcuni imprenditori meridionali hanno inviato al Parlamento affinché non vengano più dati soldi a un Sud che, se continuamente sussidiato, non vedrà mai nascere una classe imprenditoriale. Solo rispettando quelle promesse, anche se con più di 17 anni di ritardo, il Paese potrà essere più ricco e più libero.

(Carlo Melato)