«Le guerre non si fanno e comunque non si annunciano così… Berlusconi dirà pure che Gheddafi ci riempie di clandestini, ma io dico che non sono d’accordo sui bombardamenti». Con queste parole Umberto Bossi ha espresso ieri il suo disappunto per la “svolta” del governo italiano, illustrata dal premier il 25 aprile. «L’Italia – recitava infatti la nota di Palazzo Chigi – ha deciso di aumentare la “flessibilità operativa” dei propri velivoli con azioni mirate contro specifici obiettivi militari selezionati sul territorio libico». Ma se l’irritazione della Lega era stata comunque anticipata dal ministro Calderoli («Il mio voto in questo senso non l’avranno mai») ieri si sono levate alcune voci critiche autorevoli anche all’interno del Pdl. «A me piace più l’Italia che manda gli aiuti umanitari a Bengasi piuttosto che l’Italia che bombarda», ha dichiarato Alfredo Mantovano. «Non solo la Lega ha delle perplessità – ha proseguito il sottosegretario all’Interno -. Anche all’interno del Pdl ci sono delle riserve».
A più di un mese dall’inizio della guerra in Libia, IlSussidiario.net è tornato a discuterne con il Presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni.
Presidente, sul fronte libico il governo italiano ha scelto di passare all’intervento militare diretto, allineandosi così a Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Come giudica questa decisione?
Temo che sia stata una scelta obbligata. Ad ogni modo non la ritengo una decisione saggia. Penso infatti che sarebbe stato molto meglio proseguire nella ricerca di una soluzione politica di mediazione, aiutando ad esempio i tentativi dell’Unione Africana.
L’invito di Papa Benedetto XVI a fare in modo che la diplomazia prenda il posto delle armi rimarrà inascoltato?
Nei fatti l’invito del Papa, ad oggi, appare accantonato dalla scelta italiana. Mi auguro però che possano essere fatte in tempi rapidissimi considerazioni più approfondite che confermino il ruolo di non intervento dell’Italia. D’altra parte, le parole dei Pontefici in quest’ultimo secolo su ogni guerra sono sempre state chiarissime e profetiche, intrise di amore per l’umanità, ma anche di grande saggezza politica. «Mai più la guerra, avventura senza ritorno, mai più la guerra, spirale di lutti e di violenza; mai questa guerra nel Golfo Persico», disse non a caso Giovanni Paolo II durante la Guerra del Golfo. È innegabile che le tante guerre a cui i Papi si sono opposti hanno complicato i problemi molto più di quanti ne abbiano risolti.
In questi casi spesso si ricorre a paragoni storici. Per alcuni Misurata è la nuova Sarajevo, per altri l’Occidente rischia invece un nuovo Vietnam. Chi ha ragione secondo lei?
Non so cosa succederà e nessuno può saperlo. Quando però si parte per operazioni di questo tipo, con le armate di Gheddafi ben dislocate sul territorio e con insediamenti nelle città e in mezzo alla popolazione civile, il timore è che a prevalere siano gli scenari peggiori. Da questo punto di vista è drammatica l’intervista che Mons. Martinelli ha rilasciato all’Ansa.
Quale diventa ad ogni modo l’obiettivo della missione? La caduta di Gheddafi non rischia secondo lei di aprire le porte alla guerra civile tra tribù nemiche?
Una guerra tra tribù mi sembra già avviata, o comunque alle porte, e certamente gli interventi militari dall’esterno rischiano fortemente di accelerarla.
Secondo molti commentatori a incidere su questa “svolta” del governo sarebbe stata la pressione di Obama da un lato e la visita di Jalil ( il Presidente del Consiglio di Transizione di Bengasi) dall’altro. Ha prevalso in pratica la tentazione di far dimenticare la nostra passata vicinanza al Rais?
Che abbia pesato l’insistenza della Nato e di Obama è riportato anche nelle dichiarazioni ufficiali del Governo italiano, ma la stessa politica di Obama e della Nato in questo ultimo messe ha avuto molte oscillazioni. Mi sembra che la politica del mondo nel suo complesso non sia contrassegnata da lucidità, lungimiranza e saggezza.
Lei ritiene il Consiglio di Transizione un interlocutore credibile?
Devo constatare che questo Consiglio è ormai riconosciuto dalla grande parte dei Paesi del mondo, anche se alcuni grandi Paesi continuano a non riconoscerlo. Tuttavia, l’opinione pubblica è stata pochissimo informata di quale sia la vera impostazione politica e culturale del Consiglio di transizione, forse anche perché mancano indagini e notizie precise in proposito.
Crede a chi sostiene che con la sconfitta di Gheddafi si risolverà anche l’“emergenza immigrazione”?
Temo proprio di no. Ogni riassetto di governo, di regime o di potere, tanto più se traumatico come nel caso libico, porta con sé profondi rivolgimenti e anche spostamenti di masse. Vorrei essere smentito, ma temo che non succederà.
Da ultimo un domanda sul voto di Milano. Un risultato negativo secondo lei potrebbe mettere in discussione l’asse Pdl-Lega e di conseguenza chiudere, di fatto, la legislatura?
Stiamo lavorando per ottenere un risultato positivo e ci sono tutte le condizioni per ottenerlo già al primo turno. Non credo proprio che a Milano Pdl e Lega possano perdere. Certo, se lei mi costringe a parlare di un’ipotesi del “quarto tipo”, è ovvio che le ripercussioni sarebbero certamente pesanti per il “valore simbolo” che il voto di Milano (e di Napoli) ha sullo scenario nazionale.
Il “caso Lassini” può considerarsi chiuso?
Lassini è stato scorretto nel non dichiarare di essere l’autore di quei manifesti prima di essere inserito in lista, rivelandolo soltanto dopo. Se lo avesse fatto gli avremmo detto di cercarsi un altro partito, perché la sua linea non è coerente con quella del Pdl.
Detto questo, non so quanti voti prenderà, mi interessa sapere però che ha chiesto ai suoi elettori di non essere votato e che si è impegnato a dimettersi nel caso fosse eletto. Le dico un’altra cosa: anche se dovesse tradire tutti questi impegni non sarà mai un rappresentante del Pdl e non entrerà mai a far parte del nostro gruppo consigliare.
(Carlo Melato)