Ieri, nel corso dei lavoro parlamentari, la maggioranza è andata sotto cinque volte alla Camera. Sotto accusa finiscono i Responsabili, i più assenti dopo la pausa elettorale. Difficile dire se sia già un primo effetto del voto di Milano, che non mancherà di far sentire altre ripercussioni politiche.
Così, mentre Letizia Moratti si prepara ad un ballottaggio dove per battere Giuliano Pisapia dovrebbe colmare un divario di 7 punti percentuali e di 42mila voti, nella maggioranza le analisi sanno già di resa dei conti, anche se nelle intenzioni tutto viene rinviato al dopo voto. «Abbiamo sbagliato campagna elettorale»; «non ci faremo trascinare a fondo» sono le frasi lapidarie di Umberto Bossi, che domani incontrerà Berlusconi. Ilsussidiario.net ha parlato del voto con Piero Ignazi, ordinario di Scienza politica nell’Università di Bologna e direttore della rivista Il Mulino, celebre «pensatoio» e incubatore del riformismo italiano.
Professore, il voto di Milano ha sorpreso tutti. Nessuno si aspettava un Pisapia così forte e una Moratti così debole. Ma soprattutto, tutti si stanno chiedendo dove sono finiti gli 80mila voti che sono mancati al sindaco uscente (rispetto alle comunali 2006, ndr).
Dopo l’affermazione di Pisapia il vero elemento politico rilevante è il crollo delle preferenze andate al capolista Pdl, cioè a Silvio Berlusconi. È questo il dato più sorprendente di tutti. Sia rispetto alle preferenze ottenute da lui in precedenza, sia rispetto ad altri capolista in altre città. A Bologna per esempio il capolista del Pd (Maurizio Cevenini, 13.247 voti, ndr) ha ottenuto una percentuale di preferenze superiore a quella di Berlusconi; ed è un personaggio locale, non il capo del governo. Poi viene il flop della Lega, che a Milano non ha raggiunto nemmeno il 10 per cento.
Come lo interpreta?
È un dato che mette in evidenza la marginalità del partito di Bossi. La Lega è cresciuta nelle piccole città, nei luoghi marginali appunto, ma non ha la caratura di un partito a dimensione nazionale e – da lunedì scorso – nemmeno metropolitana. È riemerso il grande handicap della Lega: un partito localistico, anche nel senso letterale del termine: legato alle piccole cose delle piccole località.
I voti ottenuti dalla Lega a Bologna non possono considerarsi un successo?
Sì, è un buon risultato. Ma la Lega esprimeva il candidato sindaco, senza contare che Manes Bernardini è un personaggio con una sua spiccata individualità: ha fatto una campagna diversa rispetto a quella di tanti leghisti, intelligente, misurata, dai toni bassi. Ha evitato le «sparate» dei leader nazionali, facendosi sostenere dalla leadership storica ma senza esagerare. In questo modo è riuscito a conservare l’avanzamento del partito rispetto alle regionali. I dati dimostrano però che in Emilia Romagna la Lega è in una fase di ritiro rispetto all’avanzata fatta negli ultimi anni.
Questo cosa vuol dire?
Che il fenomeno ha raggiunto probabilmente il suo tetto e adesso sta rifluendo, proprio perché nei luoghi importanti della politica, nelle grandi città, non riesce ad attrarre consensi.
Lo sconcerto della Lega, soprattutto dopo la prova deludente di Milano, lascia supporre che pensasse di incamerare il voto degli elettori delusi da Berlusconi. Ma non è andata così.
Mi pare un ragionamento bizzarro, come se la Lega non fosse al governo e non avesse sostenuto finora a spada tratta le scelte del presidente del Consiglio. Ha cercato di stare in equilibrio sul filo della differenziazione, ma ormai ha esaurito tutte le sue possibilità, diventando corresponsabile – per coloro che li considerano tali – dei fallimenti dell’azione di governo. Ecco perché anche la Lega è stata sconfitta nella sua città simbolo, Milano. In questi anni ha mostrato l’incapacità di darsi un profilo di partito nazionale: sull’economia non ha mai detto nulla, nascondendosi dietro la «sottana» di Tremonti, sul piano internazionale ancor peggio.
Parliamo degli 80mila voti che mancano alla Moratti. È vero che il Terzo polo ci ha messo del suo, ma è anche vero che forse molti moderati sono rimasti a casa. O no?
Io credo che almeno una parte non sia rimasta a casa, ma abbia votato proprio per Pisapia. Pensiamo a Piero Bassetti e al suo «Comitato per il 51». Bassetti a Milano non è uno qualunque, impersona la storia del riformismo così caro alla città lombarda. Trovo molto significativo che si sia speso così tanto in prima fila a favore di Pisapia.
Secondo lei allo stato delle cose esistono per la Moratti margini di recupero, o Milano è l’inizio di un fenomeno irreversibile?
È probabilmente, e lo dico con la massima cautela, il primo passo verso una lenta uscita di scena di Berlusconi. Lenta perché ci vorranno ancora due anni, dato che l’alleanza tra Bossi e Berlusconi è ancora solidissima. La loro è una simbiosi politica, perché nessuno dei due può vivere politicamente senza l’altro. Quindi o elezioni, o si continua così.
Che cosa è riuscito a dire di nuovo Pisapia a tutti quelli che hanno votato la Moratti nel 2006 e che domenica e lunedì hanno cambiato voto?
Innanzitutto, non dimentichiamo che Pisapia è un politico di lunga esperienza. Non si è nascosto dietro la propria storia politica, e questo gli ha consentito di allacciare una serie di legami maturati col tempo nelle associazioni, nei partiti, nella militanza ma anche nella sua attività professionale. Ha messo insieme una serie di rapporti che ha saputo gestire con molta intelligenza e molto tatto. Direi che si è dimostrato il «volto gentile» di Milano.
Milano ha una lunga tradizione di ceto borghese riformista, moderato e operoso. Pisapia ha saputo portarlo dalla sua parte?
Non condivido del tutto la premessa. O meglio: quello di cui lei parla è un aspetto secondo me mitizzato, ma glielo concedo. È vero, ci sono certamente queste componenti, che vengono dal passato e per questo mantengono un qualche significato, ma non dobbiamo fare l’errore di sovrastimarne la portata. Probabilmente è stato anche un errore della Moratti. Ma se la classe media di Milano fosse quella che lei descrive, se ci fosse stata realmente una borghesia che fa dei valori borghesi la sua etica, il berlusconismo non avrebbe avuto così tanto spazio.
Milano, sostiene Luca Doninelli, ha in sé un fattore di incognita che sfugge sempre a qualsiasi disegno politico. Una città che non si esaurisce mai nelle formule di governo. Questo fattore potrebbe dare un esito imprevisto al ballottaggio?
Secondo me no: l’esito della prossima competizione elettorale non riserverà sorprese. È sempre più difficile prevedere i risultati al sud, dove la volatilità elettorale è molto più elevata, ma non in una città come Milano. No, quella che lei cita è un’incognita che non vedo.
Ma tra quindici giorni a Milano cosa potrebbe succedere?
È molto probabile che a questo punto, stando così le cose, vinca Pisapia.
Se dovesse valutare l’immagine che la comunicazione ha reso dei singoli candidati e di quello che vogliono fare della città, cosa direbbe?
La Milano di Pisapia risulta una città più gentile e accogliente. Quella della Moratti è una città per pochi. Escludente, direi.
Non esiste il rischio che la coalizione che fa capo a Pisapia risulti ingovernabile?
Staremo a vedere. L’unica è aspettare.