Mancavano solo le nuove dichiarazioni di Brusca al processo di Firenze per la strage dei Georgofili. Pluriomicida, boss mafioso e poi, chissà da quale grazia investito, Brusca è diventato un collaboratore di giustizia e, come tutti i cosiddetti collaboratori di giustizia, riesce a riscrivere più volte la storia d’Italia di quest’ultimo periodo. Allora, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri “non c’entrano niente” con le stragi del 1993. Giovanni Brusca lo aveva già detto dialogando con il cognato e lo ha appunto ripetuto a Firenze nel corso del processo che ha un solo imputato, Francesco Tagliavia.
Andiamo avanti, con le dichiarazioni del killer spietato ora pentito: “Nel 1992 Cosa Nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Giulio Andreotti”. Poi, dopo la strage di via d’Amelio, quella in cui fu ucciso il magistrato Paolo Borsellino, “cessò” ogni contatto con lo Stato. Seguendo il racconto di Brusca, le stragi di Firenze, Roma e Milano furono “strumenti per risvegliare lo Stato e per consigliarlo a trattare nuovamente”. Sarebbe in quel momento, solo in quel momento, che sarebbe comparso all’orizzonte un nuovo referente politico dei mafiosi, cui vennero rivolte le stesse richieste che erano già state rivolte all’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino, che sarebbe il precedente referente e che fino a poco tempo fa rivesteva il “modesto incarico” di vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ma chi era il nuovo referente? Doveva essere Berlusconi attraverso Dell’Utri e per questo fu inviato il famoso Mangano a Milano. Il tutto quindi avvenne dopo le famose stragi.
Ci si permetta di dire che il problema è certamente giudiziario, ma anche politico. Eccome. Nel giro di qualche mese, attraverso le dichiarazioni o le deposizioni di questo esercito di pentiti sono stati coinvolti in trattative, dirette o indirette, con la mafia ex Presidenti della Repubblica, ex ministri dell’Interno, ex generali dei carabinieri, ex capi della polizia, vari funzionari. Senza distinzione di appartenenza politica. Le trattative erano insomma trasversali. C’è il cosiddetto “copia e incolla” del giovane Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo che ha praticamente, attraverso la televisione e i mass media, screditato un’intera classe politica e poi la versioni sparse di altri pentiti del’ultima ora. La sensazione è che questi cosiddetti “pentiti” parlino come i vecchi Juke-box. Quando si mettevano le vecchie cinquanta lire e si attendeva di ascoltare la canzone preferita al bar.
Ma è possibile permettere, sia da un punto di vista giudiziario che da un punto di vista politico, un Paese in queste condizioni? Lasciando che siano i vecchi killer a dettare l’agenda politica di un Paese? Al momento c’è dà registrare la reazioni di Nicola Mancino. Poiché Brusca sostiene che il nome del referente gli è stato fatto da Riina, Mancino dice: “Se Riina ha fatto il mio nome è perché da ministro dell’Interno ho sempre sollecitato il suo arresto e l’ho ottenuto. Questa è una vendetta contro chi ha combattuto la mafia con leggi che hanno consentito di concludere il maxiprocesso e di perfezionare e rendere più severa la legislazione di contrasto alla criminalità organizzata. Durante il mio incarico al Viminale lo Stato ha combattuto con decisione la mafia ottenendo notevoli risultati. Altro che trattative o ricevere papelli”.
Naturalmente, nel più classico modo della vita politica italiana, è subito arrivato un attestato di solidarietà a Mancino da Marco Follini: “Sarà il caso di ricordare che dalla parte di Brusca sta una lunga carriera mafiosa. E dalla parte di Mancino stano anni di dedizione allo Stato. Ogni persona onesta può trarre dalla biografia dei protagonisti le conclusioni più limpide”. Questa è la difesa politica da sinistra. Ma si deve aggiungere il contraltare da destra fatto da Fabrizio Cicchitto: “Le dichiarazioni di Brusca confermano il quadro più plausibile sulle vicenda delle stragi del ’92-’93. Indipendentemente dai riferimenti personali che vanno tutti verificati, Brusca dice una cosa anche ovvia quando rileva che i riferimenti dei papelli nel quadro di un tentativo di compromesso tra la mafia e lo Stato riguardavano come egli dice il passato, cioè chi in quegli anni intendeva il potere dello Stato. È singolare e inquietante però che in queste dichiarazioni già rese molti anni fa al pm Chelazzi non si sia tenuto conto e anzi su di esse sia stato osservato il massimo silenzio”.
Quello che invece ci rende tristi e rassegnati, è vedere, toccare con mano che ex ministri o uomini politici di diverso colore debbano intervenire per replicare a dei mafiosi pentiti. E tutto questo avvenga senza riscontri oggettivi, senza indagini riservate e accurate da parte della magistratura e poi vengano amplificate e usate dai mass media “militanti”. Ma è possibile che nessuno stia pensando seriamente a una revisione significativa sulla collaborazione ai cosiddetti collaboratori di giustizia? Ma esiste qualcuno che ha preso la briga di vedere quello che è uscito in questi “quasi venti anni” e di chi è stato accusato, incarcerato, messo alla gogna?
Forse occorrerà arrendersi fino al 2030 per conoscere qualche brandello di verità sui rapporti tra Stato e mafia. Nel frattempo inchiniamoci mestamente a questa storia immaginaria, a queste dichiarazioni sensazionali, a questa agenda politica che viene dettata dalla mafia, che di fatto sembra l’unica vincitrice in questo guazzabuglio di falsità e di mezze verità. Complimenti, ironici, alla nuova classe politica della Seconda Repubblica.