Saranno pure – come in effetti sono – una barbarie le conversazioni intercettate senza alcun rilievo di indagine e pubblicate sui giornali, ma finiscono per portare a galla un vezzo insopportabile: la tendenza dei protagonisti del Palazzo a raccontarsela fra di loro, tenendo fuori il popolo che va servito con la solita minestra della propaganda. Viene da pensare questo, ad esempio, scorrendo la tremenda conversazione fra i due vecchi amici cuneesi Flavio Briatore e Daniela Santanché, la quale in privato dà per “bollito” il premier che in pubblico continuava a osannare, almeno fino a ieri.



Allora, diciamolo chiaramente quello che ormai tutti dicono a bassa voce, nel Pdl come nella Lega: la parabola di Silvio Berlusconi è prossima al capolinea. I fatti diranno se è davvero così, ma gli indizi ci sono tutti. Colui che fino a ieri bastava che ci mettesse la faccia per spostare maree di consensi oggi è in grado solo di creare effetti a segno meno. Se dice “chi vota quello è senza cervello”, diventa la più grande propaganda per il denigrato; se fa sapere che lui a votare non ci andrà, chi aveva prenotato la gita disdice immediatamente; se dice che la scelta di un sindaco ha valore nazionale lo prendono sul serio, ma ancora una volta solo per turarsi il naso e votare dall’altra parte; se dice che di Umberto Bossi si fida, che lasceranno la politica insieme, poco ci manca che Pontida domenica, per la prima volta, inviti il Senatur ad andarsene a casa, lui insieme a Berlusconi.



I sondaggi non sono più esibiti, segno che quelli che ci sono non fanno sperare niente di buono, la minaccia del voto è solo un’arma da suicidio da evitare: il Cavaliere ora punta tutto sull’unico luogo in cui i numeri sembrano sicuri, il Palazzo, e prova disperatamente a risalire la china. Ma i numeri intanto gli consegnano un’altra amara verità: ogni riforma costituzionale, allo stato, gli è preclusa, perché dopo un lungo ed estenuante iter parlamentare (e scontri con i magistrati, opposizioni, la Corte Costituzionale, e con Napolitano, parlando di riforma della giustizia) ci penserebbe il successivo referendum confermativo a mandare tutto a monte. Così, sull’onda della disperazione Berlusconi fa, o pensa di fare, quello che – ancora forte – avrebbe potuto fare con maggiori chance di successo un anno fa, due o anche tre.



Nomina innanzitutto a segretario unico del Pdl quell’Angelino Alfano tenuto inutilmente a logorarsi l’immagine sulla graticola della giustizia, che se fosse stato messo in quel posto prima avrebbe invece evitato in ogni modo la cacciata di Gianfranco Fini. Il quale, al di là dell’inconsistenza che ha dimostrato sin qui nella nuova collocazione, ha comunque prodotto l’innesco della slavina, insieme all’offensiva dei giudici che si è aggiunta dopo. Offensiva che, va detto, ha fatto emergere un’altra verità scomoda e inconfutabile: nello scontro in atto con il leader della maggioranza, la maggioranza degli italiani (fra il voto a Milano e quello del referendum) si è schierata con i magistrati, che evidentemente a furia di attaccarli, anche con manifesti beceri, sono stati trasformati in eroi.

Un coordinatore unico della stoffa di Alfano e una profonda virata verso i temi cruciali dell’economia e del fisco avrebbero fatto, appena un anno fa, il bene del Paese e nel contempo la salvezza dell’unità del Pdl: Giuliano Ferrara ci ha provato fino all’ultimo, ma neanche lui è stato ascoltato. Si può discettare fino all’infinito sulla strumentalità di Fini, ma non è stato né bello né lungimirante in quella storica direzione, quella del presidente della Camera col dito alzato (“Che fai, mi cacci?”) lasciare al solo Beppe Pisanu, con il suo unico voto di astensione, la difesa del valore della democrazia interna. Quella che oggi tutti invocano, quando è troppo tardi, mentre quel giorno tutti hanno votato un documento molto servile ammantato con l’alto argomento, ricorderete, di “servire il popolo”.

Ma se è vero che solo ora, che non ha più autorevolezza e consensi adeguati alla prova, Berlusconi inizia a suonare lo spartito giusto, vuol dire che i rischi veri, a questo punto, non li corre tanto il Pdl, quanto il Paese. In ogni caso se il Pdl e con lui Berlusconi dovessero soccombere toccherà farsene una ragione: è accaduto per la gloriosa Dc, scomparsa senza neanche sepoltura, e può accadere di nuovo per il partito del Cavaliere. Non è questo il punto. Il punto è, invece, un altro: chi fa, chi sarà in grado di fare quelle riforme, di prendere quelle misure urgenti senza le quali il Paese rischia sul serio il tracollo? Misure impopolari, sia chiaro, che un premier in crisi di popolarità avrà molta difficoltà a far passare intestandosele lui solo. Né è pensabile che ora, dopo lo shopping effettuato in casa loro a caccia di Responsabili, i Casini, i Fini, i Bersani gli vengano in soccorso: non a costo zero, in ogni caso. Ma qui si sta scherzando col fuoco e nella situazione in cui si è confessiamo di non vedere, facile, una via d’uscita.

Già il prossimo scoglio del decreto sviluppo si presenta difficile, con la Lega a a tirare la coperta corta verso Nord per tenersi buona la base scalpitante di Pontida e i Responsabili, Micciché e Noi Sud vari a spingere nella direzione opposta. Il pallino, in questa confusione, sembra comunque finito nelle mani del Pd, divenuto – in proiezione – primo partito, consapevole che Vendola e Di Pietro sono buoni per espugnare Milano e Napoli e promuovere un referendum, ma non hanno gli uomini e i programmi per proporre, loro, l’alternativa. Sarà per questo che Antonio Di Pietro si è ritagliato – improvvisamente –  un profilo da statista e ora dice che no, il referendum non aveva un valore politico, e si deve preparare un’alternativa di governo prima di chiedere le dimissioni del premier. E già, maligna qualcuno: se Berlusconi si dovesse dimettere di che cosa mai si occuperà l’ex pm?

Ma torniamo a Bersani. In questi mesi si gioca tutto, e chi ha a cuore le sorti del Paese ha il dovere di guardare con interesse alle sue mosse. Dall’altra parte, infatti, l’impresa di costruire un Ppe italiano per il dopo Berlusconi è lunga e difficile, probabilmente destinata a passare per un iniziale insuccesso, scontando gli errori commessi nell’assecondare gli eccessi e l’in-politica berlusconiani. Ma allora, se il vento ormai soffia dall’altra parte, per il bene di tutti è da sperare che Bersani sia all’altezza del compito e sappia proporre un’alternativa valida con uomini validi. Non parliamo di domani, parliamo già di oggi: uno come Enrico Letta – che più di tutti ha il profilo e il cognome giusto – se ha stoffa deve saperlo di dimostrarlo subito, dando il suo contributo, ora che il Paese ha bisogno di risposte dalla politica e il timoniere vacilla pericolosamente.