“Altrimenti ci arrabbiamo”, garantiva il titolo di uno dei primi film della coppia Bud Spencer-Terence Hill. “Altrimenti”?, verrebbe da chiedere a Bud-Bossi dopo il discorso di Pontida, e dopo il volantino distribuito sul mitico prato, in cui la Lega elenca, con tanto di scadenze, quello che si aspetta da Berlusconi già a partire dai prossimi giorni. Già, perché in quella dettagliata nota della spesa manca l’indicazione principale: se il Cavaliere non dovesse tenere fede agli impegni che sicuramente assumerà solennemente domani in Parlamento, cosa accadrà? “Secessione”, è stata la perentoria richiesta che il popolo di Pontida ha scandito ripetutamente, appoggiandola con tanto di striscioni. “Nel 2013 potremmo anche decidere di non appoggiare Berlusconi”, è stata la risposta alla camomilla di Bossi. Il quale, di fronte agli animi caldi della sua base, dopo aver tentato di dribblarla alla fine ha garantito: “La secessione? Decideremo assieme”. Quando mai ha deciso qualcosa con il popolo leghista, a cominciare dalla ricucitura dello strappo con il Cavaliere?



L’evento di Pontida, tanto immotivatamente atteso, al punto da essere stato presentato addirittura come “il giorno del giudizio”, è stato in realtà nulla più di una scialba riedizione dei precedenti. Quando ad esempio, fin dal 1990, Bossi aveva ripetutamente proclamato la nascita della “Repubblica del Nord”, con tanto di Costituzione; quando aveva tenuto a battesimo un terzo polo ante-litteram (il “Polo di Centro Liberal-Democratico Federalista” guidato da Giancarlo Pagliarini, poi riciclato come il “Polo del Guerriero”); quando aveva dato tempo un anno per vedere attuato il cambiamento, a partire da un “federalismo applicato”. Forse ammaestrato da queste sparate a vuoto, ieri si è limitato a un molto più blando e generico “il prossimo sarà un anno in cui l’identità padana riprenderà il volo”. E ha messo sul tappeto una serie di questioni marginali, spacciandole per decisive o quasi: le quote-latte, che interessano a qualche centinaio di allevatori non certo al mondo dell’agricoltura; la riduzione della carognaggine di Equitalia, che non risolve certo il nodo di un fisco iniquo; la nascita di una scuola di magistratura padana, che non garantirà agli italiani e neppure ai padani una giustizia più vera ed efficiente;



Il trasferimento di quattro ministeri (come mai tutti e quattro nella sola Lombardia?), che non assicurerà comunque un funzionamento migliore, perché il problema sta nel tagliare le un ghie alla burocrazia non nel cambiare le sedi.

      Sono rimasti inevasi i temi di fondo, a partire da una politica economica che garantisca insieme riduzione del debito, diminuzione delle tasse e rilancio dello sviluppo. Entro l’autunno dovremo spiegare all’Europa con quali concrete misure intendiamo rispettare l’impegno del pareggio di bilancio nel giro di tre anni. E non  basterà certo sottrarsi alla guerra in Libia (che comunque ci vedrà coinvolti almeno per i prossimi 90 giorni, lo vogliamo o no), sforbiciare gli stipendi dei dipendenti del Parlamento, e il solito toccasana della riduzione delle auto blu, annunciata e mai attuata dai tempi dei primi motori a scoppio. Bossi rimane di fronte alla scelta di fondo se davvero restare al rimorchio di Berlusconi fino al 2013, rischiando di finire a fondo insieme; oppure tagliare il cordone che lo lega a lui e navigare per conto proprio, tornando a fare il megafono della protesta ma senza contare politicamente: come dal 1996 al 2000. Oggi come oggi, non pare orientato a mettersi col centrosinistra (“non possiamo mandare il Paese in  malora”, ha spiegato a Pontida); il quale d’altra parte gli ha dato un’involontaria mano con la sua ormai abituale vocazione al suicidio, mettendosi a litigare sul rapporto da tenere con il Carroccio proprio alla vigilia del raduno.



      Che fare? Galleggiare, per il momento. Il punto è: fino a quando? Meglio tirare a campare che tirare le cuoia, spiegò un giorno l’astuto Andreotti. Ma erano altri tempi.