“Dopo Pontida e il cronoprogramma ‘prendere o lasciare’ fissato dal Capo sul pratone bergamasco siamo già al mercanteggiamento notturno”, nota un vecchio parlamentare della maggioranza, non senza ironie. In effetti ieri notte Pdl e Lega hanno concordato che il trasferimento dei ministeri è da intendersi come quello di uffici di rappresentanza anche se operativi, mentre le sorti della missione in Libia, al netto del richiamo del Colle, sono demandati al Consiglio supremo di difesa che si riunirà il 6 luglio. Già, nel frattempo che ne sarà degli ultimatum? Forse che Bossi a Pontida ha scherzato? La faccenda è più complicata e per provare ad immaginare che piega prenderà la politica italiana nel corso di questa estate, dove strappi e toni ultimativi si accavalleranno senza sosta, occorre fare un passo indietro.
Nell’ultimo anno sono successe 3-4 cose a cui il partitone verde non era abituato, specie dopo il ciclo elettorale 2008-2010 che lo ha visto espandersi dalle proprie roccaforti pedemontane del Lombardoveneto al Piemonte e la Liguria e poi scendere sulla via Emilia, in Toscana e nelle Marche. Primo. L’onda lunga della crisi globale colpisce il blocco sociale del Carroccio più di altri: pmi e partite Iva faticano a ripartire dopo lo tsunami mondiale. L’economia stagna, le imprese chiudono e cresce la disoccupazione. Secondo. Con il doppio ko alle amministrative e ai referendum sembra finita l’illusione di giocarsi insieme partito di lotta e di governo. Istituzionali a Roma, anti sistema in periferia. Nelle precedenti elezioni la Lega aveva lucrato sulla doppia anima facendo cestino del voto in uscita dal Pdl: crescevano le tensioni interne ma i voti restavano tutti nel perimetro del centrodestra. Non è più così. Terzo. La malattia di Bossi avanza, il suo carisma è appannato, e questo apre una guerra intestina tra colonnelli leghisti: Roberto Maroni in cooperazione/competizione con Roberto Calderoli, i giovani amministratori locali contro la nomenclatura romana, i “famigli” stretti del Senatur contro chiunque attenti alla leadership del Capo.
Proprio in queste ore i “maroniani” hanno sventato un blitz del cerchio magico (Reguzzoni, Bricolo e Rosi Mauro), i pretoriani stretti che dalla malattia del Capo sorvegliano sul suo corpo come fosse il sacro Graal sotto l’occhio benevolo della signora Manuela, la consorte del Senatur, che vorrebbero silurare il segretario lombardo del partito, Giancarlo Giorgetti. Sullo sfondo il dopo Berlusconi: il cerchio non vuol mollare Silvio perché perderebbe peso interno e poltrone e non vuol lasciare campo libero alla leadership di Maroni; il ministro dell’Interno a sua volta sa bene che per non morire con Silvio, occorre immaginare una strategia che ne prescinda. Bossi sta in mezzo e cerca il divide et impera per sopravvivere.
La doppia sberla elettorale (amministrative+referendum) arriva a valle di queste novità. Un impasto che produce fibrillazioni, smarcamenti e proteste da parte di una base delusa per una riforma federalista che sa di plastica e il patto di stabilità imposto dal ministro “amico” Giulio Tremonti che strozza i comuni virtuosi del nord. E poi il Carroccio paga l’eccessivo abbraccio di questi anni con Silvio Berlusconi: scandali sessuali, leggi ad personam, clientelismo politico spinto, mance ai comuni del sud. Il Carroccio ha sempre votato tutto. Una subalternità che mina la credibilità della stessa classe dirigente leghista, accusata da molti militanti di essersi ormai “imborghesita” e “romanizzata.”
Eccoci allora al senso delle parole di Pontida. Bossi ha provato a rimotivare il proprio popolo ma alla fine ha solo guadagnato qualche mese di ossigeno rimandando di fatto alla festa dei popoli padani di Venezia (in settembre), il momento delle decisioni vere: rilancio seppure a tempo dell’alleanza con Berlusconi o mani libere? Di certo trovare la quadra tra soldi per rilanciare l’azione di governo che non ci sono, il rapporto di ferro con l’amico Giulio incrinato e Maroni che scalpita per prendersi la leadership interna, non sarà semplice. Il penultimatum al governo di domenica riflette quindi lo stato d’animo di un Carroccio in trappola (e con lui il suo leader stanco) e diviso al suo interno.
Teme di finire sotto le macerie con Silvio ma non sa come uscirne: mollare l’alleanza è sconsigliato dalla legge elettorale; spingere per il voto anticipato in queste condizioni vorrebbe dire quasi certamente perdere (e infatti Bossi lo ha ammesso dal pratone); sposare un governo tecnico rischierebbe di consegnare il paese alle manovre di palazzo e finire emarginati. A Bossi non resta che mostrare i muscoli e minacciare Berlusconi e Tremonti sulla Libia, la riforma fiscale e i ministeri al nord. Mosse disperate, di una leadership al crepuscolo.