Ripensando a quanto è avvenuto il 21 luglio alla Camera dei deputati rimango sempre più amareggiato perché, su una questione delicata e complessa come quella su cui siamo stati chiamati a decidere, sarebbe stato innanzitutto necessario che tutte le forze politiche e i gruppi parlamentari avessero lasciato libertà di voto ai propri parlamentari, permettendo loro così di affrontare la questione con molta serenità. In questo modo, tra l’altro, sarebbe apparso evidente che proprio l’impostazione della richiesta di custodia cautelare avanzata dal gip avrebbe meritato due giudizi con esiti totalmente diversi.



L’articolazione dettagliata della richiesta dimostrava infatti che, tecnicamente, l’inchiesta aveva fatto un lavoro inattaccabile: il gip aveva selezionato il materiale di accusa, le tesi di appoggio e le prove. La conseguenza naturale di tutto ciò sarebbe stata la perfetta legittimità del rinvio a giudizio. La conseguenza opposta alle conclusioni di questo lavoro sarebbe stata invece l’assoluta infondatezza della richiesta di carcerazione, non essendo pensabile che l’On. Papa potesse fuggire e reiterare i reati. Le prove dei fatti che gli venivano addebitati erano infatti già acquisite e non esisteva alcun rischio di inquinamento delle prove. Anzi, laddove l’On. Papa avesse provato a farlo, avrebbe dato motivo al pubblico ministero, e poi al gip, di contestargli nuovi reati.



Con ciò si dimostra che il gip ha usato tutta la sua abilità tecnica per offrire a chi avesse scelto di dichiararsi favorevole alla sua richiesta una solida base di appoggio. Così facendo però è andato oltre il segno per ottenere di più. E questo di più non è soltanto la carcerazione di Papa, o la “sberla” data a Berlusconi, ma la pretesa dimostrazione che tra pubblico ministero, gip e Parlamento, a prevalere è il primo. Questo, com’è ovvio, apre una questione delicata che va al di là del fatto che sarebbe stato giusto processare Papa e mandarlo in galera,eventualmente, dopo la sentenza passata in giudicato. Il gip ha ottenuto infatti la riaffermazione di un principio: quando la pubblica accusa ha motivo di azione penale nei confronti di un deputato questi, innocente o colpevole, deve andare in galera.



E con ciò si pone in evidenza che il problema centrale della crisi della giustizia in Italia è il processo. Infatti, quando sul processo grava la pregiudiziale iniziativa dell’accusa, il processo non è più un confronto pari, e il Giudicante deve faticare, nella migliore delle ipotesi, per mantenere la sua terzietà. L’art. 274 del cpp. ha messo nelle mani dell’accusa che comprende il pm e il gip, sempre più strettamente vincolati, salvo sempre più rari casi, un potere straordinario che tenta di predeterminare l’esito del processo, oltretutto anticipandolo al suo inizio. Chi da imputato viene processato in ceppi è già stato condannato.

È questo potere esuberante del Pm che rappresenta il problema non del rapporto giustizia-politica, ma il problema della Giustizia tout-court. 

C’è perciò un problema politico aperto del quale, con assoluto garbo, deve farsi carico il Presidente Napolitano, che ha già posto comunque l’argomento relativo all’assurdità e all’inammissibilità di uno scontro tra politica e magistratura. I limiti che la magistratura  deve dare alla sua azione non sono certo dati dai privilegi da accordare alla politica, ma dal rispetto dei principi e dei criteri di legalità che non devono essere forzati per dimostrare che il potere decisivo è quello delle manette. Queste cose, in altri tempi, le scriveva nei suoi libri un grande giurista che oggi, su un quotidiano della Capitale, persegue altre battaglie. A ogni modo deve essere chiaro a tutti che il criterio garantista è essenziale al criterio di legalità e non c’è legalità quando essa viene imposta attraverso la forzatura delle norme.

Alla luce di questo ragionamento, è inevitabile riflettere sulle conseguenze politiche di quanto è avvenuto, grazie alle scelte del Pd e di molti altri, tra i quali mi addolora registrare l’impensabile presa di posizione dell’Udc. Il discorso alla Camera dell’On. Mantini, infatti, non rispecchiava nessun tratto della grande tradizione politica dei giuristi della Democrazia cristiana che, dalla Costituente in poi, si sono occupati di diritto penale, come Leone e Moro. E proprio di quest’ultimo ricordo le battaglie che condusse nel 1976, non contro la magistratura, ma affinché l’azione penale fosse sempre contenuta dentro l’alveo delle norme processuali, che non possono non comprendere norme etiche e norme di civiltà umana. Purtroppo, nelle parole di Mantini tutto questo non c’era e, francamente, ne sono addolorato.

E mi preoccupa ancor di più il fatto che la ricerca dell’alternativa a Berlusconi, legittima e oggi sempre più indispensabile, sia ricacciata sul terreno del giustizialismo. In questo modo è evidente che non porterà alcun frutto e che il beneficiario di un’impostazione che tende a rilanciare un giustizialismo becero e disumano non sarà né Bersani, né Casini, ma il giudice di turno che giungerà a cavallo dell’ex collega, oggi deputato, Antonio Di Pietro.