Ci sono economisti laureati – alla Montale – molto più bravi di me, i quali hanno già scritto e scriveranno con acribia ed equilibrio sulla manovra governativa. Io voglio far qui solo alcune considerazioni generali per collocare la manovra in un contesto specificamente italiano e trarne le conseguenze inevitabili.
In primo luogo l’Italia è una nazione a bassissima crescita economica da più di un decennio. E a ciò si accompagna un debito pubblico elevatissimo senza che siano intercorsi, in questo lasso di tempo, consistenti interventi dello Stato imprenditore; anzi, abbiamo privatizzato, anche se senza liberalizzare. Le entrate fiscali non solo non consentono di limitare e tanto meno abolire progressivamente il debito pubblico ma soprattutto – e questo è l’asse essenziale del mio ragionamento – vieppiù incrinano la crescita.
Non possiamo avere dubbi: un Paese non cresce con un carico fiscale superiore al 40%: lo dice tanto la teoria quanto la storia economica. In Italia, soprattutto sulle imprese e sul lavoro autonomo, che è divenuto uno dei punti focali della nuova configurazione occupazionale, il carico fiscale supera amplissimamente questa percentuale. Essenziale è ridurre le tasse in forma drastica: solo una cura alla Thatcher e alla Reagan ci può salvare. Certo: una cura concentrata nel tempo, breve e intensa, pena la distruzione del Paese, come è avvenuto, per esempio, nell’Argentina menemista e, per quanto riguarda le infrastrutture, in parte anche negli Usa.
Seconda considerazione: il debito pubblico crescerà per via di questa diminuzione delle entrate; ma per pochi anni, poi il sistema respirerà e ricomincerà a crescere. Nel mentre occorrerà lottare contro l’evasione e valorizzare la tenuta del debito sul fronte del risparmio, incentivando gli italiani ad acquistare i titoli di stato, così come occorre fare anche nei confronti degli investitori esteri.
Terza considerazione: le imposte sugli investimenti finanziari tout court, compresi i titoli di stato, contenuti nella manovra colpiscono al cuore i piccoli risparmiatori come i grandi investitori invece che dirigersi, le imposte, verso le transazioni finanziarie vere e proprie, che sono fonte di immensi guadagni da parte tanto delle banche quanto della speculazione finanziaria vera e propria.
Quarta considerazione: la forma più efficace per abbattere il debito pubblico è innalzare immediatamente l’età pensionabile tanto dei maschi quanto delle femmine, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico. Nei primi anni della crisi mondiale il governo laburista australiano votò, d’accordo con l’opposizione, in un solo giorno, un provvedimento che innalzava l’età pensionabile di entrambi i sessi – e immediatamente – all’età di sessantasette anni. E scusate se è poco! E questo in un paese con un debito pubblico che fa ridere rispetto al nostro e una tenuta assai ragguardevole nei confronti della crisi mondiale.
Il problema pensionistico è centrale: consente di risparmiare rapidamente decine di miliardi di euro.
Quinta considerazione: è eticamente spaventoso che tutto inizi, in questa fantomatica manovra, dopo il 2013 o il 2014, quando si saranno tenute le nuove elezioni.
Questo disvela, assai di più delle mancate promesse sull’abolizione delle province, la riduzione del numero dei parlamentari, ecc., il significato decadente, di decomposizione, che la manovra stessa assume. I risultati della cosiddetta riduzione dei costi della politica sono grida manzoniane lanciate dagli stessi untori che le grida condannano; in ogni caso i risparmi sarebbero assai scarsi. Inoltre né il governo né l’ opposizione danno battaglia su questi temi.
Questo significa (ecco la decomposizione, che è morale prima che economica) che nè il governo né l’opposizione posseggono ormai la legittimazione etica necessaria per chiedere al paese lacrime e sangue con equità per il bene comune. È triste ammetterlo, ma è così.