Ci si può attaccare a tante cose, nella vita: per scelta spontanea o su invito altrui. Ma fa un certo effetto, vedere Umberto Bossi che si attacca a un polveroso Regio Decreto addirittura del 1871 per giustificare la scelta del trasloco a Monza di tre ministeri: in quegli stessi anni falliva il progetto Minghetti di dar vita a un’Italia federale… C’è solo da sperare che nessuno o quasi abbia raccolto l’invito del leader della Lega di andare a visitare le sedi allestite a Villa Reale: le hanno chiuse il giorno dopo il taglio del nastro, e le migliaia di persone che a detta dello stesso Bossi hanno già chiesto di servirsene dovranno pazientare fino a settembre.
Parafrasando Shakespeare, c’è tuttavia del metodo in questo folklore. Il Carroccio arriva alle vacanze estive in palese difficoltà; e la polemica con il Colle sui ministeri è solo uno dei non pochi nodi aperti nella casa-madre di via Bellerio, che si sente accerchiata e per la prima volta vede incrinarsi il suo peso all’interno della maggioranza. L’addio di Casini in passato, di Fini in questa legislatura, avevano messo Bossi in condizione di forza nel centrodestra, in grado di presentare all’incasso il proprio ruolo di unico quanto granitico alleato del Cavaliere. E il robusto esito elettorale del trittico politiche 2008-europee 2009-regionali 2010 sembrava averlo portato a un sostanzioso incasso, a partire dal federalismo fiscale.
Ma una serie di contraccolpi hanno incrinato questo baluardo. La crisi economica e la manovra stanno, se non vanificando, quanto meno portando alle calende greche l’attuazione di un vero federalismo: per ora, i cittadini e con loro i sindaci leghisti che li amministrano ne vedono solo gli svantaggi, tradotti in termini di maggiori tasse locali. Al punto che Calderoli si è lasciato scappare uno scenario addirittura trentennale, salvo correggersi appena resosi conto della gaffe.
La Lega governa a Roma, in due Regioni e in centinaia di Comuni. Ma proprio quando era attesa alla prova del cambiamento ha fatto cilecca, quanto meno a livello nazionale. Ha dovuto ingoiare massicci aiuti a Comuni non certo virtuosi del sud. Si è piegata a votare assieme agli alleati del Pdl la curiosa tesi di una Ruby nipote di Mubarak. Ha puntato i piedi su una serie di questioni-chiave, dalle missioni all’estero ai rifiuti di Napoli, ma ha dovuto accontentarsi di sbiaditi compromessi. Ha fatto passare per una rivoluzione istituzionale la sistemazione di tre scrivanie a Monza, ma non ha evitato il fermo stop del Quirinale. Ha presentato una riforma costituzionale sulla quale è scattata subito la commedia degli equivoci con lo stesso capo del governo. Sulla vicenda Papa, dove pure ha tentato di smarcarsi da Berlusconi, ha messo in scena il balletto del sì-no-forse, con un Bossi inedito singolarmente ridotto al ruolo di Re Tentenna.
Deve fronteggiare il malumore crescente della propria base; e siccome quando piove piove, si è trovata pure a dover far fronte all’ennesima delirante esternazione di Borghezio, prova vivente dell’annotazione di Leo Longanesi a proposito del fatto che essere intelligenti non è un obbligo. Fra tre mesi, quando scadrà la sospensione inflittagli dal Carroccio, il personaggio si asterrà da analoghi squallidi bis? Dubitarne è lecito.
Sullo sfondo sta una situazione interna alla Lega fin troppo evidente, con un Bossi visibilmente stanco e appannato, forse all’inizio di un lungo, ma inesorabile, viale del tramonto che richiama alla mente l’autunno del patriarca così magistralmente descritto da Garçia Marquez. La storia insegna che attorno ai leader in declino, specie quando hanno esercitato il loro ruolo in blindata solitudine, fermenta una lotta di successione spesso perfida, in cui tra i primi a sgomitare sono i mediocri.
Quale sarà l’esito del dopo-Bossi, nessuno oggi è in grado di dirlo. Ma che accanto ad alcune figure di rilievo si stiano già dando da fare gli epigoni della mediocrità, è fin troppo evidente. Inclusi i fantocci di cui si servono per cercare di farsi largo.