I tagli dell’ultima manovra sono sicuramente pesanti e dolorosi. Purtroppo la contingenza che stiamo attraversando non ha lasciato alternative. Ma affermare che questi tagli hanno determinano la fine del federalismo fiscale è fuorviante. Nessuno in Germania ha sostenuto che il federalismo fiscale tedesco era morto per via della riforma approvata nel 2009 che obbliga al pareggio di bilancio e impegna Federazione e Länder su questo obiettivo, imponendo a questi ultimi il divieto di indebitamento anche per le spese di investimento. Certo se il processo italiano del federalismo fiscale – iniziato nel 2009 e sostanzialmente concluso a luglio di quest’anno – avesse avuto solo l’obiettivo di una mera fiscalizzazione di trasferimenti statali, si dovrebbe concordare con quella tesi. Ma il processo, durato appunto tre anni, è stato molto di più di 4 o 5 miliardi da fiscalizzare: si è trattato di ben otto decreti legislativi con l’obiettivo di riportare razionalità in un sistema che l’aveva perduta. Basti pensare che fino a prima il nostro sistema ha distribuito ogni anno (ad esempio nel 2008) ben circa 100 miliardi di euro in base al criterio demenziale della spesa storica, per cui più spendi più prendi, e se spendi male fino a creare un buco lo Stato interviene a ripianare con risorse di tutti gli italiani (l’ultimo governo Prodi stanziò 12 miliardi di euro per cinque regioni del Sud in extradeficit sanitario; regioni che quel ripiano l’hanno assorbito quasi come nulla fosse e oggi continuano ad essere in deficit e a mantenere fortissimi livelli di migrazione sanitaria). Oppure basti considerare che nel 2008 si è scoperto che tutta la contabilità della sanità della Calabria era completamente inattendibile. O ancora che Catania è stata premiata per il rispetto del Patto di stabilità sulla base del bilancio presentato nel 2008 e quando nel 2009 quel bilancio che sulla carta la faceva somigliare a un comune svizzero si è dimostrato quello che davvero era, Catania è stata ripianata con 140 milioni di euro. Questi sono solo alcuni – se ne potrebbero citare molti altri – dei segni che dovrebbero permettere di comprendere qual è la portata dell’obiettivo del federalismo fiscale.



E’ a questo livello – le regioni virtuose dovrebbero capirlo e sostenere quindi un processo che tende a correggere quelle che così non sono – che interviene il federalismo fiscale con i suoi otto decreti legislativi, si tratta di un intervento strutturale che modifica nel lungo periodo il sistema istituzionale, con un impatto su i grandi temi: i comportamenti, la responsabilità, la trasparenza, la democraticità, il controllo elettorale. I costi e i fabbisogni standard permettono il risultato epocale del superamento della irrazionalità del finanziamento in base alla spesa storica. L’armonizzazione dei bilanci inciderà, modernizzandoli, sui bilanci di 9.700 enti portando il nostro sistema ad un livello di trasparenza e di ordine che spesso era gravemente compromesso. Ecc.



Occorre quindi considerare in modo più compiuto la dinamica temporale e sostanziale, senza confondere manovra e federalismo fiscale: il federalismo fiscale è una riforma strutturale, la manovra è un intervento congiunturale, seppure con obiettivo politico decisivo come il pareggio di bilancio: nella crisi, senza pareggio di bilancio non c’è né lo Stato centrale, né federalismo. Non è il pareggio di bilancio che fa saltare il federalismo fiscale, ma è il pareggio che lo permette (Germania docet).

Peraltro, la manovra è triennale, il federalismo fiscale che si avvia oggi con l’attuazione della legge n. 42 del 2009, non si esaurisce nemmeno nella delega: questa, con gli otto decreti legislativi approvati pone il primo fondamentale e indispensabile tassello di razionalizzazione del sistema. Una volta attuata – e anche “tagliandata” con i decreti correttivi – questa indispensabile riforma, il processo del federalismo fiscale è potenzialmente destinato ad essere più ampio: può essere visto in una prospettiva temporale non triennale, ma addirittura  trentennale per le prospettive che può aprire. Oggi si punta molto sulle addizionali, domani si potrà pensare a strumenti più avanzati come in altri sistemi federali, a tributi propri e a tributi devoluti. Per questo è un processo che non deve essere fermato o equivocato. 



Riguardo poi agli stessi numeri della manovra, vanno considerati con obiettività: la manovra di agosto colpisce in modo molto più pesante i Ministeri. E già rispetto a quella di luglio, in ogni caso, la Ragioneria centrale ha messo in evidenza che con il decreto legge n. 98/2011 nel periodo 2011-2014 la riduzione della spesa per le Amministrazioni centrali è pari a  14,5 miliardi e a 11,1 miliardi per le Regioni (compresa la sanità). Infatti, la distribuzione della manovra di luglio fra l’Amministrazione centrale e le Regioni è sostanzialmente proporzionale con il peso che ciascun comparto ha evidenziato nel 2010 in termini di spesa primaria. L’incidenza della manovra ammonta infatti al 48,5% per le Amministrazioni centrali a fronte di una quota di spesa pari al 25,3%, mentre la quota delle Regioni è pari al 37% in termini di manovra a fronte di una percentuale di spesa primaria pari al 20,2%. Le amministrazioni centrali sopportano dunque una correzione pari a 1,9 volte la loro quota di spesa, a fronte di un contributo delle Regioni pari a 1,8 volte. 

Leggi anche

TAGLIO DELLE REGIONI?/ Dalla Francia una lezione al federalismo italianoJ'ACCUSE/ Il federalismo di Renzi e Ncd? Nasconde il centralismo peggioreSCENARIO/ Il giurista: l'asse Napolitano-Renzi può rovesciare il "federalismo all'italiana"