Che succede in Italia se si ferma la Germania, la prima economia continentale e nostro tradizionale mercato di sbocco? Dalle parti del governo devono essersi persi la frenata dell’economia tedesca, con il Pil quasi fermo nel secondo trimestre 2011. Tutti presi a rimbalzarsi la responsabilità di una manovra correttiva firmata dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso e già disconosciuta da mezzo esecutivo, intento a immaginare come svuotarla per riscriverla: i maroniani della Lega, pezzi di Pdl frondisti con Tremonti e poi lo stesso Silvio Berlusconi, che non ci sta a passare per l’uomo delle tasse.
“Cara Europa, abbiamo scherzato”, si legge sull’ideale cartello della politica italiana. Un dilettantismo e una superficialità che rischiamo di pagare molto caro perché mai come questo triennio di ottovolante globale ci ha insegnato che il mondo è ormai talmente concatenato che i contagi passano velocemente da un capo all’altro del globo, tanto più se sei un paese con poco credito internazionale e in stagnazione cronica (nel 2011 il nostro Pil non dovrebbe crescere più di un misero 0,7-0,8%).
In questi giorni d’agosto, infatti, c’è grande incertezza sulla tenuta della congiuntura mondiale. In generale i dati sull’economia americana e cinese fanno pensare a un rallentamento dopo mesi e mesi di crescita vigorosa sui mercati emergenti. Molti analisti predicono una prossima recessione globale. Proprio il dato del Pil tedesco potrebbe essere il segnale che l’economia più dinamica di eurolandia sta anch’essa rallentando.
Certo per ora la fiducia delle imprese è sempre ai massimi, anzi, l’ultimo indice elaborato dal loro sistema di Camere di commercio prevede forti assunzioni nei prossimi mesi. Ma non manca chi vede nero dietro il dato inaspettato di Berlino.
Lo ha spiegato bene l’economista di Prometeia, Paolo Onofri, in un’intervista a Firstonline: “se la frenata della Germania dipende dalla crisi di fiducia interna o dal calo dei consumi o dalle dinamiche del settore delle costruzioni, non c’è da preoccuparsi.
Se invece tutto dipendesse dall’export e dal rallentamento della Cina allora sarebbero guai”. Il sospetto è forte, tanto che i mercati lo stanno già scontando: dietro il dato congiunturale tedesco potrebbe esserci la risposta cinese all’espansione monetaria americana e il tentativo di Pechino di raffreddare la propria crescita per arginare i pericoli di importare inflazione dagli Usa. E siccome Berlino fa ormai il 50% del proprio Pil all’estero, ovvio che un calo delle esportazioni nei paesi emergenti potrebbe essere alla base della frenata.
In questo caso le ricadute sul resto dell’Europa potrebbero essere dolorose. E qui arriviamo alla nostra litigiosa e irresponsabile Italia. L’intreccio Roma-Berlino è storico e capillare. Nel 2010 abbiamo esportato in Germania merci per 44 miliardi di euro e importato beni per circa 50. Berlino vale il 13% del nostro export, e specie la dorsale padana è molto integrata: un terzo dei manufatti italiani che finiscono in Germania è lombardo, il 15% è veneto, il 13% emiliano-romagnolo, il 12% piemontese. Vero è che nell’ultimo biennio la grossa crescita delle esportazioni la stiamo facendo sui mercati extra Ue.
Ma in volume e valore la Germania resta il primo mercato per la nostra meccanica, la chimica, l’automotive. Componenti, ma anche beni strumentali. Il nostro sistema produttivo è per molti versi ancora una sorta di super indotto della grande industria tedesca. Dunque se frena la loro domanda, noi soffriamo automaticamente senza poter compensare con il mercato interno, da troppo tempo debole.
Eppure la nostra politica non sembra accorgersene. Non consideriamo che un’erosione della congiuntura mondiale e un ennesimo tracollo delle borse potrebbero vanificare per la seconda volta (dopo quella di luglio) i sacrifici della manovra correttiva, tanto più se giochiamo pericolosamente a svuotarla.
Non consideriamo poi che la tenuta del nuovo governo europeo dell’economia, faticosamente abbozzato al vertice Merkel-Sarkozy per frenare il contagio e salvare l’euro, si misurerà proprio sulla capacità di spingere l’Italia verso lidi virtuosi. Insomma il mondo ci guarda e ci misura, ma noi impassibili restiamo attaccati ai riti e alle liturgie peggiori del teatrino nazionale.