«Faccio il giornalista dal 1° gennaio del ’61. È il mestiere che ho sempre sognato di fare fin da ragazzino. In questo mezzo secolo di professione ho commesso anche grandi errori, ma non ho mai smesso di riflettere su questo mondo». Giampaolo Pansa si racconta a IlSussidiario.net.  «Alla mia età  – ci confida – posso dire cose che ai giovani non sarebbero permesse».



Il suo ultimo libro, “Carta Straccia”, uscito a maggio ha venduto più di 100.000 copie ed è già arrivato alla decima edizione. «Non è la prima volta che parlo di giornalismo. Ho iniziato con “Comprati e venduti” nel ’77 e poi con “Carte False” dell’‘88. Oggi però ho sentito l’esigenza di affrontare la crisi che i media italiani stanno attraversando. È una riflessione, anche autocritica, sul “pollaio” in cui continuo a vivere».
 
Nel suo libro racconta che quando iniziò a muovere i primi passi da giornalista, a 25 anni, si chiedeva se ciò che scriveva fosse la verità. Come si è risposto in tutto questo tempo? «Guardi, io ho avuto la fortuna di lavorare per giornali importanti: Stampa, Messaggero, Corriere, Repubblica ed Espresso. Tutte testate che i cosiddetti “poteri forti” hanno sempre osservato con attenzione.  E così, dato che ero costretto a camminare su un “campo minato”, mi sono afferrato all’unica àncora che avevo: l’onestà verso me stesso e verso i miei lettori. Ho sempre provato a fare, in pratica, un giornalismo che non fosse al servizio di nessuno, né degli editori, né dei partiti.
A qualcuno potrà sembrare una “ricetta” troppo generica, ma parlo per esperienza. Il successo di “Carta Straccia”, tra l’altro, mi ha dato nuovi spunti su cui riflettere».



Cosa intende dire? «Parlando con molti lettori e con qualche buon libraio ne ho capito il motivo: a torto o a ragione, l’opinione pubblica italiana sta assimilando i giornali al potere politico e alla crisi dei partiti odierni.
Devo ammettere che inizialmente non ci avevo pensato. Quando mi sono messo all’opera, infatti, volevo soltanto fare un racconto del mondo dei giornali che fosse onesto, comprensibile a tutti e che non tralasciasse magari il lato comico di qualcuno dei tanti direttori che si credono padreterni».

Ma questa sfiducia che lei ha colto nella gente deriva da quella che in “Carta Straccia” viene descritta come la trasformazione dei quotidiani in “fogli militanti”? «Direi di sì. D’altra parte se ripenso alla mia esperienza professionale sono convinto di una cosa: il fatto di non aver mai aderito a nessun partito mi ha aiutato molto in questo mestiere. Mi ha permesso di osservare l’ambiente della politica con un occhio più distaccato.
Qualcuno magari mi accuserà di qualunquismo, ma la mia è più una sana “sfiducia” negli esseri umani, a cominciare da me, naturalmente. La consapevolezza che, seppur figli del Padreterno, siamo portati a sbagliare. Di semidei non ne ho ancora conosciuti».



In un altro passaggio, propone una tesi interessante: quando il giornalismo diventa militanza e la realtà viene letta con le lenti dell’ideologia “non si va più per il sottile” e si commettono molti più errori. È davvero così? «Se un quotidiano si dà come “mission” quella di attaccare un governo o di favorirne un altro significa che qualcosa non va. Sarò un anarchico, seppur mite, ma chiunque può verificare quello che dico andandosi a rileggere i giornali degli ultimi anni.
Riguardo agli errori, nel mio libro faccio un lungo elenco di quelli più incredibili, in buona e cattiva fede. C’è da restare a bocca aperta.».

Ma la situazione era così diversa quando lei iniziò? «Direi proprio di sì. Innanzitutto c’era il “boom economico”. Di conseguenza i giornali andavano alla grande, così come le aziende, e di conseguenza, la pubblicità. La prima preoccupazione dei direttori era quella di non perdere lettori e questo escludeva a priori la possibilità di “parteggiare”.
Non è un caso che io non abbia mai saputo quali fossero le simpatie politiche del mio primo direttore a La Stampa di Torino, Giulio De Benedetti. Certo, visto che dirigeva il quotidiano della Fiat non sarà stato un rivoluzionario ed essendo un ebreo sfuggito ai tedeschi, non avrà avuto simpatie per i fascisti. Di certo però non ha mai sventolato nessuna “tessera numero uno” di questo o quel partito».

E oggi, da dove si può ripartire secondo lei? «Bisognerebbe “soltanto” invertire la rotta. A volte vorrei, infatti, un’informazione più fredda, che lasci il caldo alle rubriche degli opinionisti e che si preoccupi innanzitutto di informare.
Al di là dei buoni auspici, il punto di partenza comunque è chiaro: gli steccati sono stati alzati da tempo in base alle militanze e i “lettorati” si sono stabilizzati: i giornali di centrodestra si contendono un certo numero di copie e quelli di centrosinistra fanno altrettanto. Chi morde di più passa all’incasso, chi non cede alla pancia se la passa piuttosto male…».

(Carlo Melato)