Dopo Berlusconi, ancora Berlusconi? La principale novità del discorso del premier che non conteneva grandi novità è stata appunto la discesa in campo di un nuovo Berlusconi. Proprio nella mancanza di enfasi e di annunci miracolistici è emerso questo nuovo volto del Cavaliere che affronta il Parlamento senza avere alle spalle sondaggi trionfalistici, né la minaccia di elezioni anticipate.
Il nuovo Berlusconi è il Berlusconi non più carismatico e che non nasconde le proprie ammaccature. Un uomo quindi “finito” e da “passo indietro” come lo ha definito l’opposizione di sinistra e di estrema sinistra? In verità nel Parlamento non aleggiavano né lo scioglimento delle Camere, né il ribaltone, né il governo tecnico. Al contrario l’unico dato politicamente rilevante è stata la forte differenziazione tra gli oppositori con una presa di distanza di Casini dal Pd che apre la prospettiva di un rapporto positivo con il governo all’ombra del dialogo con le parti sociali. E l’impegno in quella direzione è il segnale politico più significativo dato dal capo del governo.
Quale Berlusconi è quindi in campo? Un leader non più carismatico, ma pur sempre il leader (senza alternative) del partito di maggioranza relativa e della coalizione di governo. Che cosa ha di fronte e che cosa ha alle spalle per pensare di poter esercitare la leadership nazionale?
Di fronte vi è un’opposizione molto bellicosa, ma estremamente divisa tra Di Pietro, Vendola e Casini intorno a un Pd che in mano a Bersani e D’Alema non si configura come un’alternativa più credibile sul piano programmatico e/morale. Gli Stati “guida” della sinistra italiana – da Obama a Zapatero – non emettono ricette suadenti e lo stesso Pd, in sostanza, si affida all’iniziativa Marcegaglia-Mussari.
Bersani è sempre più in affanno di fronte all’incalzare di Vendola e Di Pietro e alla dissociazione di Casini in quanto la sua aspirazione a guidare il fronte popolare della rivolta morale traballa sotto le inchieste giudiziarie.
Il “nuovo Berlusconi” è infatti agevolato da questa novità rappresentata dal coinvolgimento della sinistra nella cosiddetta “questione morale” e soprattutto dalla scarsa credibilità delle reazioni, in particolare di Bersani. Quale “diversità politica” è possibile invocare? Il fatto di essere stati vent’anni fa comunisti è ancora un “lasciapassare”? L’opinione pubblica è ancora convinta che in “Mani Pulite” si è proceduto a colpi d’accetta e non con la forbicina delle unghie?
A vent’anni di distanza anche sul Pci la verità storica non è più delegata ai verbali della polizia giudiziaria, ma poggia con maggiore serietà sugli stessi archivi del Partito comunista presso la Fondazione Gramsci. I comunisti non erano affatto al di fuori dal sistema delle tangenti sin dagli anni Settanta, da quando con il bisogno di maggiore autonomia politica dal Politburo si rifornirono di un’”amministrazione straordinaria” con tangenti italiane. La diversità millantata da Berlinguer nei comizi era propaganda, ma una sostanziale diversità in materia però esisteva ed era appunto quella definita dallo stesso Berlinguer all’interno del Partito.
Quando nel 1975, all’indomani dello scoppio dello scandalo delle “tangenti rosse” a Parma, Berlinguer convocò la riunione straordinaria della segreteria nazionale del Pci così si espresse: «Occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili, ma perché nel ricorrervi il disinteresse personale dei nostri compagni è stato assoluto». E già nella riunione della Direzione del giugno 1974 è verbalizzato da parte di altri dirigenti del Pci: «Noi dobbiamo dire grazie a quei compagni che, senza farsi corrompere loro, hanno permesso al partito di vivere e di svilupparsi. Ci sono allusioni a compagni che passerebbero per ladri consentendo così ad altri di passare per puri. La verità è che, nell’insieme, si è consentito al partito di vivere! Ci siamo salvati perché, per quanto ci riguarda, i soldi sono serviti per il Partito».
E cioè la diversità dei comunisti non è consistita nel non aver fatto ricorso sistematico alle tangenti, ma nella maggiore limitatezza di casi di arricchimento personale. Gli arricchimenti personali vi sono stati, ma in forma sostanzialmente minore rispetto agli altri partiti. Perché? Perché il Pci era retto dal regime del centralismo democratico secondo una sostanziale assenza di correnti che duellassero a tutto campo in congressi ed elezioni. Il centralismo democratico ha avuto molti difetti, ma certamente dal punto di vista delle tangenti ha consentito una gestione più centralizzata, meno vistosa e rischiosa. È una “diversità” di non poco conto, ma può ancora essere invocata oggi, a distanza di più di vent’anni, quando già nel 1991 nel Pci a filosofeggiare circa l’”amministrazione straordinaria” si contavano almeno tre “correnti di pensiero”?
Tra i leader ex comunisti grava una insincerità di fondo in materia. Nessuno di loro infatti ha avuto ancora il coraggio di dire chi nella segreteria del Partito – dopo Secchia, Longo, Cossutta e Cervetti – a partire dalla fine degli anni Settanta, si è occupato dei soldi.
Oggi senza più nel fodero né l’”internazionalismo proletario” né il “centralismo democratico” si pretende di imporre un’autocertificazione morale per il recente passato, il presente e il futuro.
D’altra parte il nuovo Berlusconi non è privo di problemi alle sue spalle. La caduta di carisma ha alimentato due risposte nel Pdl. La prima è “lo spirito del ‘94”. La crisi sarebbe determinata dal fatto che Berlusconi non ha potuto essere se stesso per colpa di alleati e candidati locali. Prima Casini, poi Fini e infine Tremonti. Soprattutto non ha potuto realizzare “la rivoluzione liberale” perché handicappato da ex socialisti ed ex democristiani.
Una bella epurazione – o come avrebbe detto Macchiavelli: “ritorno alle origini”, “ridursi in sul principio” – è la via d’uscita, di rilancio e di riconquista del favore popolare e dello stesso carisma. In sostanza un partito di destra, se non di estrema destra. Ma soprattutto una dichiarazione di fallimento generale del ruolo svolto da Berlusconi dal ’94 ad oggi.
Altri – soprattutto di area cattolica e liberalsocialista – puntano a una politica che si muova secondo un’economia sociale di mercato evitando incendi sociali: non bellicosa autosufficienza, ma riconquista di spazi e consensi di fronte a una sinistra di fatto “congelata”. Il confronto con le parti sociali può essere utile.
Nel parlare alle Camere il premier è sembrato propendere per questa direzione, ma è difficile che egli rinunci del tutto al richiamo dello “spirito del ‘94”, anche se questo richiamo continua a far danni non solo in termini elettorali – come si è visto a Milano –, ma anche nella giungla parlamentare. Il primo effetto è stato il contagio e cioè il trasferimento dello “spirito del ‘94” in seno alla Lega: l’abbandono dell’asse Bossi-Berlusconi e il rilancio dell’idea di una Lega anch’essa di nuovo “dura e pura” indipendente dal Pdl.