Ad assistere al dibattito di questi giorni sulla manovra di aggiustamento finanziario, vien da pensare che resti del tutto disattesa la grande lezione di responsabilità istituzionale, orgoglio nazionale e realismo politico tenuta dal Presidente Napolitano al Meeting di Rimini, a dispetto dei plausi unanimemente resi dalle forze politiche alle parole del Capo dello Stato.



Nel messaggio di Napolitano infatti il “linguaggio della verità”, così provocatoriamente invocato, non si è tradotto solamente nell’impietosa rassegna dei nodi critici che attanagliano il Paese. Più ancora, si è risolto nell’indicazione dell’unico possibile metodo in grado di alimentare ragionevolmente “il coraggio della speranza, della volontà e dell’impegno”; tale, insomma, da mobilitare “quella grande tensione, quello stesso impegno verso il bene comune”, già dimostrati in altre drammatiche prove della nostra storia.



In effetti, c’è un filo rosso che lega la dinamica degli ultimi 150 anni e che segna la cifra peculiare del Paese (quantomeno sino all’avvento della Seconda Repubblica). Si tratta di una linea di eventi sociali, politici, istituzionali e culturali generata da quella che è stata spesso definita spregiativamente l’anomalia italiana e che, invece, ne rappresenta l’essenziale specificità. Questa consiste nella capacità di tenere insieme gli opposti e di ricomporre i dissidi, così da scongiurare le discriminazioni, dirimere i conflitti, valorizzare le differenze, salvaguardare la pace sociale e incrementare lo sviluppo economico. Non a caso Napolitano ha contrapposto il primo trentennio all’ultimo ventennio della storia repubblicana, facendo risaltare la differenza fra l’accelerazione socio-economica del primo periodo e la stagnazione della crescita e della competitività del secondo.



Il rilievo è essenziale. Evidenziando le diverse conseguenze economiche derivanti dal differente tipo d’impegno politico dei due periodi, è emerso il (necessario) primato della politica sull’economia e, di rimando, la non riducibilità dell’attuale crisi in termini di Pil, derivando la stessa da ben “altri fattori” di ordine non solo quantitativo, ma, per l’appunto, politico e ideale. Basti pensare al contributo politico reso nel trentennio successivo alla nascita della Repubblica. La fase politicamente compromissoria della storia repubblicana, infatti, non si è esaurita nella straordinaria esperienza dell’Assemblea costituente. Essa è proseguita in termini certamente differenti e inediti nel successivo trentennio. Il tessuto socio-culturale italiano presentava le medesime ragioni di contrapposizione e conflitto fra classi e culture, che avevano generato la divisione di Yalta e provocato lo scoppio della guerra fredda. Non per questo, tuttavia, l’ordine di Yalta è stato posto in discussione. Esso, anzi, è stato considerato come “provvisoriamente definitivo” – per riprendere la significativa espressione usata da Augusto Del Noce a proposito dell’essenziale contributo di Giulio Andreotti – sino a costituire la base di un inedito (e fortunato) allineamento fra il contesto geopolitico internazionale e l’assetto sociale, politico ed istituzionale del Paese.

Rispetto alle difficoltà provenienti da un sistema democraticamente “bloccato”, merito della politica fu quello di individuare formule, correggere convenzioni geopoliticamente necessitate e sperimentare modelli, che hanno aperto il varco a soluzioni politico-istituzionali altrimenti impensabili; soluzioni che hanno trasformato l’impedimento di un limite invalicabile (l’impossibile alternanza governativa derivante dal bipartitismo “imperfetto” in vigore) in un’opportunità d’inclusione e d’integrazione sociale ed istituzionale, essenziale per lo sviluppo e la pacificazione del Paese.

Rientrava fra dette soluzioni pragmatiche quella della cosiddetta conventio ad excludendum. Essa elevava a sistema l’esclusione delle forze di sinistra dal solo esecutivo statale, per il resto consentendone la partecipazione all’area di governo in senso lato, comprendente il parlamento, le magistrature, gli enti locali e le regioni. La riproducibilità democratica era, dunque, garantita dalla teoria delle “due maggioranze”, che assicurava la necessaria compresenza di una maggioranza governativa e di una distinta maggioranza legislativa, da realizzarsi per mezzo di una ricerca del consenso su singole politiche e su specifici provvedimenti legislativi. E così, se la politica estera rimaneva riservata alle forze governative, l’interpretazione della Costituzione era demandata a una rilettura in senso “progressista” sui piani della legislazione, della prassi amministrativa e della giurisprudenza ordinaria e costituzionale.

Era talmente radicata la consapevolezza della necessità per il governo di godere di un consenso sociale e politico assai più diffuso di quello meramente numerico connesso alla fiducia delle Camere, che il segretario del Pci, Luigi Berlinguer, soleva ripetere che non si sarebbe potuta governare l’Italia con il semplice 50 percento più 1 dei voti parlamentari (allora conseguiti in via proporzionale!). Fuori da ogni intento polemico, l’affermazione dimostrava l’essenzialità del primato della politica ai fini del funzionamento delle formule istituzionali e, in definitiva, della persistenza dell’impianto democratico.

Ebbene, quasi a riproporre il ciclo pittorico senese di Ambrogio Lorenzetti, in cui l’Allegoria del buon governo si contrappone a quella del malgoverno, stridente è il contrasto evidenziato da Napolitano con riguardo agli esiti della Seconda Repubblica. In questa la logica della democrazia dell’alternanza è stata lasciata “degenerare in modo sterile e dirompente dal punto di vista del comune interesse nazionale”, con la conseguenza che “il prezzo che si paga per il prevalere – nella sfera della politica – di calcoli di parte e di logiche di scontro sta diventando insostenibile”. Di qui l’angosciosa confidenza: “ci sono momenti in cui – diciamolo pure – si può disperare” della capacità dell’attuale politica di superare le attuali sfide che stringono Italia. “Ma non credo a una impermeabilità della politica che possa durare ancora a lungo, sotto l’incalzare degli eventi” e delle sollecitazioni nazionali e internazionali”.

Eppure, nonostante l’accrescersi di credibilità sui mercati e le istituzioni internazionali, pare proprio che il deficit d’iniziativa politica che ha contraddistinto la Seconda Repubblica conservi la propria irresponsabile “impermeabilità”. Ne è prova l’ultima bozza di modifica della manovra di aggiustamento finanziario. Oltre a prevedere vistose e contraddittorie correzioni del decreto legge emanato lo scorso 13 agosto, essa dispone interventi di natura costituzionale riguardanti il dimezzamento del numero dei parlamentari e la soppressione delle province. Orbene, subordinare la stabilità di una manovra finanziaria a un evento futuro e incerto, quale nei fatti è l’approvazione di una riforma costituzionale, non rende giustizia alla drammatica situazione finanziaria italiana! Né, d’altro canto, si può ragionevolmente ritenere che un’iniziativa costituzionale possa essere intrapresa dalla sola maggioranza, per mere esigenze economiche e indipendentemente dalla considerazione della funzionalità e della coerenza del sistema residuo!

Quanto al dimezzamento dei parlamentari, infatti, la riduzione degli stessi in assenza di una previa modifica dell’attuale sistema elettorale, che impedisce all’elettore di votare il candidato preferito, avrebbe come effetto unico e perverso quello di accentuare ulteriormente il sistema di oligarchia dei partiti ora vigente.

Quanto alla soppressione delle province, allo stesso modo, una mera disciplina abrogativa lascerebbe gli enti locali privi del necessario coordinamento in settori essenziali quali quelli dell’ambiente, rifiuti, trasporti, istruzione, assistenza etc. Il tutto, in una prospettiva in cui l’eliminazione delle indennità ai consiglieri comunali, rendendo il relativo impegno meramente volontario, indebolisce l’iniziativa politica locale.

Al contempo, tuttavia, nemmeno può dirsi che di maggiore responsabilità sia l’apporto dimostrato dalle opposizioni, ancora una volta incapaci – per riprendere le parole del Capo dello Stato – “di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali”.

È innanzi allo sciagurato contesto delineato, in definitiva, che si erge la lezione del Capo dello Stato e la sua ferma indicazione: “può la forza delle cose, può la drammaticità delle sfide del nostro tempo, rappresentare la molla che spinga verso un grande sforzo collettivo come quello da cui scaturì la ricostruzione democratica, politica e morale del nostro Paese”.