Gianstefano Frigerio, politico di lungo corso della prima Repubblica, attualmente membro dell’Ufficio Politico del Ppe, il Partito popolare europeo, guarda agli avvenimenti di oggi, ricordando brevemente il passato.
Come è cambiato il mondo economico e politico, professor Frigerio?
Non voglio essere un declinista, ma in questi mesi mi capita di ripensare sempre di più al famosissimo libro di Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”. Certo è che gli assetti geopolitici mondiali sono radicalmente cambiati rispetto alla fine della “guerra fredda” e il mondo occidentale appare impantanato in complessi problemi. Mi sembra lontanissimo il decennio dei miti entusiastici e fallaci (gli anni Novanta): la fine della Storia, l’espansione inarrestabile della globalizzazione che si trascinava dietro l’economia di mercato e le istituzioni democratiche, la forza del turbocapitalismo finanziario come motore dello sviluppo, la supremazia onnipotente e globale dell’America. Poi l’Occidente, soprattutto l’America, è passata attraverso “l’età della paura”: 10 anni di guerra globale al terrorismo, di logoramento, di costi (mille miliardi di dollari circa), di spaventosa caduta di immagine, in cui si è innestata anche la tempeste di Wall Street del 2008.
Adesso che scenario si presenta?
Ora, come dice Robert Kagan, è “il ritorno della storia e la fine del sogno americano”: a cui è utile aggiungere la riflessione di Larry Summers, l’ex capo della equipe economica di Obama: “Quanto a lungo può il massimo debitore mondiale restare la massima potenza mondiale”. Queste premesse geopolitiche si trascinano dietro altri grandissimi problemi nel mondo occidentale: la rivoluzione demografica e la crisi di invecchiamento dell’Occidente; le sempre maggiori fratture culturali e strategiche dentro la compagine occidentale; l’incremento del debito sovrano e privato (circa 300 per cento del Pil, la media dell’Occidente); meno soldi quindi meno potenza; pochi stimoli e crescita troppo lenta da troppi anni; un inesorabile declino della cultura dell’economia sociale di mercato che per oltre mezzo secolo hanno caratterizzato il capitalismo occidentale.
Di fronte a questi cambiamenti come si comporta l’Occidente?
Di fronte alla tempesta di Wall Street, l’Occidente si è mosso in ritardo, attraversato da pericolose divisioni, spesso senza strategia: ad esempio si è continuato e si continua ad affrontare la crisi come un dato congiunturale e non come una svolta strutturale ed epocale; si continua a scambiare la finanza per economia, l’economia per politica o addirittura per cultura; si sono buttati tre anni per costruire nuove regole che in qualche modo permettessero di governare la internazionalizzazione della finanza, non si sono fatti passi avanti sufficienti nel costruire strumenti di governance globale. Sarebbe utile prendere coscienza rapidamente che lo stereotipo del un “mondo piatto” è stato aspramente sconfitto dai fatti; non c’è un canone mondiale comune, anzi proliferano ideologie divaricanti e incompatibili, soprattutto nello spazio virtuale. E questa multipolarità che tende all’impotenza, genera incertezza, turbolenze dei mercati, insicurezza, paura del futuro.
E l’Italia, di fronte a tutto questo?
Dentro questa temperie si colloca il nostro Paese, carico di criticità consolidate nei decenni, indebolito da una lunga fase di bassa crescita, reso ancora più fragile da un clima politico torbido per i violenti processi di delegittimazione, per il pernicioso squilibrio tra i poteri dello Stato, per il tatticismo della politica e in genere delle elites, ossessionate dai risultati di breve respiro e dalla tendenza a galleggiare. Eppure la drammaticità della situazione complessiva imporrebbe responsabilità, dialogo, coesione, coraggio strategico verso il futuro: la politica deve sforzarsi di disincagliare il dibattito e la vita parlamentare dalle secche della manovra e dalle emergenze a ripetizione, recuperando un respiro strategico verso il futuro e un disegno di sviluppo. Questa vale anche per il nostro impegno in Europa. Ci vuole più coesione, più solidarietà tra gli Stati, più sviluppo. Il risanamento, necessario, urgente e rigoroso, senza un robusto sviluppo si trasformerà in gelida recessione.
(Gianluigi Da Rold)