A leggere i disegni di riforma di questi giorni, vien da pensare che il vero pericolo per l’equilibrio del sistema costituzionale non provenga più dall’“ingegneria istituzionale”, bensì, più banalmente, dall’“approssimazione istituzionale”.

Gli “ingegneri” sono coloro che nutrono piena fiducia nella capacità delle regole di creare un sistema virtuoso. Essi ritengono che le regole, di per sé, rappresentino l’unica garanzia per il buon funzionamento del sistema. In tal senso, credono che le stesse siano esportabili e trapiantabili in contesti diversi da quello originario, mantenendo comunque intonsa la propria efficacia.



Gli “approssimativi”, al contrario, non si curano degli esiti delle regole da introdurre, né si preoccupano dell’eventualità che le stesse siano irrazionali, prima ancora che irragionevoli. Essi, più semplicemente, confidano nella forza simbolica (e taumaturgica) delle stesse, anche se di per sé illogiche e deficitarie. In tal senso, ritengono che compito delle regole sia quello di recepire gli slogan e i messaggi mediatici imperanti nel corpo sociale, indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze derivanti dal relativo accoglimento.



In definitiva, gli “ingegneri”, muovendo dall’ottimismo della ragione di stampo illuministico, credono nell’universalità della forza delle regole e dei relativi effetti, a prescindere dal contesto di riferimento; gli “approssimativi”, muovendo dall’ottimismo della volontà di stampo liberale, considerano le regole quali mere sovrastrutture di un corpo sociale in ogni caso capace di autoregolarsi.

Per gli uni, è essenziale la trapiantabilità di istituti di democrazia altrove dimostratisi efficaci; per gli altri, è sufficiente la semplice parvenza di quei medesimi istituti. Gli uni, riformano per riformare, anche se a costo di trapiantare regole non adeguate al contesto nostrano e da modificare una volta sperimentate; gli altri, riformano per rispondere alle pressioni esterne di cambiamento, anche se a costo di inserire regole di mera facciata e nemmeno idonee a essere sperimentate.



A leggere i disegni di riforma di questi giorni, è proprio questa l’amara considerazione che si trae. Non che la riforma del sistema sia inutile, posta la disperata necessità di ammodernare il sistema e di estirpare quelle sacche di privilegi e malgoverno responsabili dell’attuale drammatica situazione del Paese. Essa, tuttavia, è stata scritta non già per riformare, bensì per dare la mera parvenza della riforma, al fine di placare la tempesta speculativa di questi tempi.

Si consideri il caso riguardante la soppressione delle Province sancito dal disegno governativo di riforma costituzionale. Nel vigente sistema, queste costituiscono enti territoriali necessari e sono disciplinate dallo Stato con riguardo agli aspetti essenziali (legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali), in modo da impedire la proliferazione di micro-modelli regionali; sono, dunque, differenziabili solamente dal punto quantitativo (territorio, numero di abitanti e di consiglieri), per il resto rimanendo uniformi le funzioni e il sistema di governo.

I profili deficitari dell’attuale sistema, di conseguenza, non concernono né il ruolo di coordinamento riconosciuto alle Province, né l’uniformità di disciplina; interessano, piuttosto, il mancato riconoscimento di un dinamismo strategico nelle funzioni di area vasta e il conseguente appiattimento su rivendicazioni campanilistiche. Di qui, il recente sconsiderato aumento delle piccole province e lo sciagurato aumento della spesa pubblica.

Orbene, rispetto a tale quadro normativo, il disegno governativo di riforma non si preoccupa tanto di favorire una razionalizzazione del sistema, riducendo il numero delle Province e snellendone gli organi (soluzione, sia detto per inciso, soggetta alla semplice via legislativa e non a quella di modifica della Costituzione). Per contro, esso realizza un’opera di mero gattopardismo istituzionale dagli esiti infausti: riconosce l’insostituibilità del ruolo svolto dalle Province, ne limita le potenzialità e ne sopprime la figura, sostituendola con una sorta di armata Brancaleone territoriale.

Più precisamente, per un verso, limita il ruolo di coordinamento al solo “esercizio” delle funzioni di governo di area vasta. Per altro verso, demanda tale nuovo ruolo a un organismo da disciplinare in sede regionale e non più statale, consistente in una mera associazione fra i Comuni del medesimo comprensorio provinciale.

Si tratta di una soluzione prevedibilmente fallimentare e fonte di insostenibili e innumerevoli complicazioni. La nuova forma associativa, infatti, è priva di quell’autonomia necessaria a imporsi sia sui comuni aderenti, sia sulla Regione di riferimento. Essa si risolve in un organismo pletorico e facoltativo, derivando dall’adesione non obbligatoria dei numerosissimi comuni presenti nel territorio.

Sicché, paradossalmente, se nel sistema vigente le decisione sono rimesse a un apposito consiglio provinciale (dalla composizione numerica comunque riducibile in via legislativa), nel nuovo sistema le stesse sono demandate a un organo politico di secondo livello, composto da consiglieri nominati dai consigli comunali aderenti. Il tutto, con un prevedibile aumento della conflittualità localistica e con un’accentuazione della stasi decisoria. Per non dire che la riduzione-eliminazione delle indennità ai consiglieri comunali, rendendo il relativo impegno meramente volontario, indebolisce ulteriormente l’iniziativa politica della nuova forma associativa.

La riduzione dei costi della democrazia, in definitiva, non può derivare dalla radicale e indiscriminata abolizione e/o manomissione degli istituti della democrazia. Essa, al contrario, presuppone una lucida e coerente manutenzione di tali istituti, inconciliabile tuttavia con le pressioni emotive e contingenti dell’antipolitica. Sempre che l’intenzione sia quella di migliorare effettivamente il sistema italiano.