Meno male che sui quotidiani c’è la data di pubblicazione. Perché, a sentire le parole pronunciate ieri da Bossi a Venezia, verrebbe legittimo il sospetto di aver preso in mano per sbaglio una cronaca di anni fa. Dalla prima volta (quindici anni fa…) in cui il “Senatùr” proclamò, stesso posto stessa ora, la secessione della Padania, dando il termine di un anno solare, gli annunci di uomini pronti a combattere per l’indipendenza del nord, di Italia alla canna del gas, di referendum per la secessione, si sono sprecati. Naturalmente, senza che nulla accadesse: anzi da dieci anni, con la sola eccezione dei 18 mesi del malconcio governo Prodi-bis, la Lega sta saldamente a Roma, subendone gli svantaggi, ma usufruendo anche dei non indifferenti vantaggi.



In realtà, quello delineato da Bossi ieri in laguna, e cioè il possibile referendum, c’è già stato più volte, e con numeri inequivocabili. Non nei gazebo padani, ma nelle urne, i cittadini del nord hanno sposato l’idea del Carroccio in netta anche se qualificata minoranza: 23 per cento nel 1996, 19 per cento nel 2008. Significa, in soldoni, che 2 settentrionali su 10 non condividono affatto la proposta; semmai, in quota consistente quando votano Lega lo fanno nella speranza che almeno lei riesca a schiodare quest’Italia dal mefitico immobilismo in cui versa da decenni. Basterà ricordare che nel 2006, dunque appena cinque anni, solo il 4 per cento degli italiani votò per il Carroccio; lo scorso anno sono stati l’11. Tutti secessionisti dell’ultima ora, o gente per cui la politica è governare un Paese e non solo protestare?



La manifestazione di ieri a Venezia è stata in realtà l’ennesima certificazione dell’impasse in cui versa il partito. Ci sono state le solenni affermazioni di fedeltà al Capo, certo, condite con i soliti attacchi ai giornalisti. Ma forse qualcuno pensava che ieri qualche leghista avrebbe attaccato in pubblico le odierne difficoltà della Lega? E sono stati i giornalisti a inventarsi il cerchio magico, gli stop-and-go di Bossi, le proteste dei sindaci leghisti sulla manovra, e quant’altro? Sono i media o è Bossi a coltivare il progetto di una successione dinastica al Grande Capo, affidata a un inetto Bossi II in modo da consentire al venerando e vetusto padre di continuare a governare da dietro le quinte, come tanti satrapi della storia hanno già fatto? E Velina Verde che accusa Maroni di flirtare con la massoneria è un’invenzione esterna o un bubbone interno?



La verità è che nell’elettorato del Carroccio, ma anche tra molti militanti convinti, cresce il disagio per la sostanziale e penalizzante subalternità a Berlusconi; e non basta certo aver chiuso ormai da mesi il forum di Radio Padania per illudersi che non ci sia. Figure autorevoli come Flavio Tosi (28mila preferenze alle regionali 2005, 61 per cento all’elezione a sindaco di Verona nel 2007), l’europarlamentare Matteo Salvini, lo stesso ministro Bobo Maroni, sostengono semplicemente che il premier ha fatto il suo tempo e ora sta facendo danni, quindi dovrebbe farsi da parte. Non stanno invocando una rivoluzione, un cambio di alleanze, un governo tecnico, un ricorso anticipato alle urne. Stanno semplicemente spiegando che se la Lega non vuole finire fuori strada assieme al Pdl, occorre cambiare il conducente rimanendo nel contesto del centrodestra.

È tanto eretico da dover ipotizzare addirittura l’espulsione degli audaci? O per Bossi il problema centrale non è la secessione, ma la successione, comunque finte entrambe? Non ci vorrà molto per avere risposte chiare a questi interrogativi. E da esse dipenderanno le sorti di un movimento in cui hanno creduto e credono decine di migliaia di persone. Chissà se il Capo ne terrà conto.