Quando i Costituenti redassero l’Articolo 41 della nostra Carta fondamentale il panorama dell’impresa italiana era molto diverso da quello odierno. Nel 1947 l’Italia, uscita distrutta dalla Guerra, era un paese prevalentemente agricolo. Solo negli anni ’50 e ’60, il mondo ha potuto assistere a un fenomeno unico: la trasformazione di un paese arretrato in una delle sette maggiori potenze industriali del mondo. Fu un vero e proprio “miracolo italiano”. Una miriade di imprese nacque dal talento dei nostri concittadini che, anche oggi, ci rende il Paese con il più alto tasso imprenditoriale del mondo.
Purtroppo però siamo anche uno dei Paesi in cui è più difficile fare impresa. Un primato di cui non possiamo andare fieri. Nel Rapporto 2011 della Banca Mondiale “Doing Business”, l’Italia si colloca infatti al 180° posto.
La difficoltà di fare impresa costituisce uno degli aspetti più preoccupanti per il futuro della nostra economia e il primo fattore di blocco degli investimenti produttivi nel nostro paese.
Eppure, nel dibattito odierno sul Comma 3 dell’Articolo 41, molti esponenti della minoranza definiscono inutili le modifiche proposte. In pochi forse ricordano che anche personalità come Luigi Einaudi furono avverse a una formulazione che sanciva il potere dirigistico dello stato in economia. Ad ogni modo, l’opposizione è davvero sicura del fatto che aggiornare la Carta a una situazione radicalmente mutata sia inutile? Fino a quando le nostre imprese riusciranno a sostenere costi burocratici che ammontano a oltre un punto di Pil?
La formula inserita nel comma 1, secondo la quale “tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge è consentito”, è poi oggetto di facili ironie. Sembrerebbe infatti una formulazione inutile e ovvia, ma non è così. Chi conosce la vita quotidiana delle imprese sa quante norme arbitrarie vengono inventate e fatte attuare dai funzionari pubblici e dagli addetti ai controlli.
Sancire questo principio significa perciò garantire la legalità e dare riferimenti chiari a chi rischia del proprio e attuare quanto ci chiede l’Europa, che, già nella Comunicazione detta “Small Business Act” del 2008, ha chiesto all’Italia di creare un ambiente in cui sia gratificante fare impresa.
Mi auguro, infine, che vengano accolti anche due emendamenti che ho presentato insieme ad altri colleghi.
Il primo prevede l’introduzione del principio di proporzionalità con riferimento alle norme e ai controlli. Le norme che riguardano le imprese dovranno essere differenziate sulla base della loro dimensione e dello specifico settore di attività. Significa adeguare la nostra Carta alla geografia reale del nostro sistema economico, costituito per quasi il 95% da micro e piccole imprese per circa il 99% da micro, piccole e medie aziende.
Quella che viene definita con disprezzo l’“anomalia italiana” non è un’anomalia, ma una grande risorsa. L’anomalia, semmai, consiste nell’immaginare un sistema che non esiste nella realtà e disegnare su di esso il sistema delle norme e dei controlli.
Il secondo emendamento prevede invece la reintroduzione all’articolo 118 del principio di sussidiarietà. Un valore fondamentale e irrinunciabile, richiamato anche dal Presidente della Repubblica, in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Cambiare l’Articolo 41 è perciò un elemento fondamentale per garantire un’effettiva libertà d’impresa in un Paese che ha scelto come modello l’economia di mercato. Abbiamo bisogno di dare fiducia a quei milioni di cittadini, gli imprenditori, che ogni giorno, in silenzio, costruiscono il Pil e l’occupazione di questo Paese.
Dobbiamo incoraggiarli. Devono sentire lo Stato non come il principale intralcio, ma come il loro primo alleato. E abbiamo il dovere di ringraziarli per quanto fanno, con il loro impegno e il loro sacrificio, per la crescita e la coesione dell’Italia.