Il sindaco di Varese, l’avvocato Attilio Fontana, è persona di grande urbanità. Risponde con cortesia al cellulare, ascolta e poi spiega: “Parlo volentieri, ma dipende di che cosa vogliamo parlare. Al momento di Lega Nord, di politica, mi dispiace ma non parlo”. Dà un appuntamento nel giro di qualche giorno, aggiungendo: “Provi, che magari qualche cosa può cambiare”.
In questo periodo, senza che i leghisti si offendano, sembra di affrontare un partito con un politburo al vertice, come ai tempi del vecchio PCUS (per i giovani il partito comunista dell’Unione Sovietica), dove una dichiarazione può essere presa come prova d’accusa (una volta si chiamava frazionismo) che ti porta diritto davanti a una commissione, si spera, o a un leader che decreta sospensione o espulsione.
Questo clima all’interno della Lega non è una novità assoluta. C’è stato varie volte nella storia ormai più che ventennale nel movimento creato da Umberto Bossi. La prima Lega lombarda fu una sorta di rottura tra due cognati. Poi, periodicamente, con un’abilità politica istintiva, quasi animalesca, era Bossi stesso a decretare gli “allontanamenti”.
Memorabili gli scontri con l’ex leader della Liga Veneta, Franco Rocchetta, con Franco Castellazzi, capogruppo della Lega nel consiglio regionale lombardo, ma molto più significative le ultime fuori-uscite spontanee o “spintanee”. Occorre dire che nella prima Lega Nord, nata dall’unificazione dei vari movimenti autonomisti e secessionisti dal Piemonte al Veneto, Bossi aveva la capacità di scegliere una linea politica precisa, difenderla e farla osservare quasi ossessivamente. Che poi si concedesse qualche scorciatoia o cambiamento di rotta, il fatto riguardava solo lui. In tutti i casi, chi dirottava da questa linea doveva “prendere la porta”.
Ma in fondo, ai fini del movimento leghista, era quasi un ricambio fisiologico e continuo di classe dirigente, che rafforzava soprattutto il potere del leader carismatico e, per essere più precisi, decretava la leadership assoluta del padre-fondatore, del partito-persona. Se si guarda oggi al gruppo dirigente leghista, si vede che i superstiti della prima grande stagione leghista sono ben pochi: Roberto Maroni e Roberto Castelli. Lo stesso Roberto Calderoli è un leader successivo di poco tempo. E, a ben vedere, non mancano solo i rappresentanti più “estroversi”, come il gigantesco Erminio Boso, ma anche i rappresentanti di una società che si collega alla borghesia imprenditoriale lombarda e del Nord Est, quella che aveva puntato seriamente e convintamente sulla Lega all’inizio degli anni Novanta.
I più rappresentativi di questa fascia erano gli ex ministri Giancarlo Pagliarini e Vito Gnutti, che poi si ribellarono al lider maximo. Ora la situazione appare completamente cambiata.
“Bobo” Maroni è un ministro di lunga militanza. Ebbe un apparente, duro contrasto con Bossi, ai tempi del cosiddetto “ribaltone” del 1994. I più attenti osservatori ritenevano che quel contrasto fosse un’”opzione pilotata” da tutti e due, cioè sia da Bossi che da Maroni.
Oggi non è più così. Di certo Maroni non diventerà mai una sorta di “Bruto”, che aspetta alle “idi di marzo” il suo Giulio Cesare, ma è sicuro che Maroni ha in mente oggi un’altra Lega e un altro partito. E per questo lavora.
Roberto Castelli, il lecchese, è un fedele esecutore, intelligente e svelto, anche leale e sincero. Non ha difficoltà ad ammettere che la base leghista stia attraversando una fase complicata, di contrapposizione al suo interno, ma ha probabilmente ragione quando dice che la situazione non è così pesante come la stanno descrivendo i media.
Calderoli è più indecifrabile. Difficile immaginare a che cosa stia pensando. Ma il vero cambiamento sta nella fascia intermedia degli amministratori locali.
Un tempo, ancora negli anni Novanta, i sindaci leghisti si mostravano spesso impazienti e non docili con Bossi. Il caso dell’avvocato Raimondo Fassa, primo sindaco leghista di Varese, che poi ha abbandonato la Lega è emblematico. Ma oggi i sindaci sono tanti e si misurano con il loro territorio, cercano di presidiarlo, amministrando anche bene in molti casi, e nello stesso cercano di fare una politica che non segua bruschi cambiamenti in poco tempo, come Bossi è abituato a fare.
La politica di questo Governo pesa enormemente su tutte le amministrazioni locali, anche su quelle leghiste. Quindi non c’è nessuno stupore di fronte agli aperti dissensi di Flavio Tosi a Verona o delle dimissioni dall’Anci di Attilio Fontana, il nuovo sindaco di Varese, oppure della lettera del sindaco di Macherio, Giancarlo Porta. ma c’è un dato di fondo, che proprio quegli scarti di Bossi garantivano vitalità e imprevedibilità alla Lega Nord.
Il problema è che il dissenso si è allargato sia per motivi di carattere amministrativo, sia perché la difesa a oltranza dell’asse solidissimo tra Bossi e Silvio Berlusconi disorienta sia gli amministratori sia un quaranta per cento dell’elettorato leghista, a seconda delle zone.
Sull’asse di ferro Bossi-Berlusconi c’è un aspetto umano, molto nobile che si deve rispettare e di cui non è giusto parlare. Ridurre questa reale amicizia alle vicende amare della banca leghista sarebbe un grave errore.
Tuttavia, resta il dato di fatto politico. La compattezza leghista, un classico degli anni Novanta, pur tra espulsioni ed epurazioni, non regge più. Bossi può restare ancora in sella in questi mesi e per questi anni, ma la sua leadership non è più una “parola d’ordine” come ai tempi d’oro.
Sulla Lega piovono strali di ogni tipo, da quelli del Presidente Giorgio Napolitano, a quelli dei partiti d’opposizione (che si rendono conto che l’asse Bossi-Berlusconi non si incrina), a quelli della stessa opinione pubblica del Nord che aveva visto nella “questione settentrionale” un tema importante da sostenere e affrontare. Difficile fare pronostici per il futuro. Può anche darsi che la cosiddetta crisi del debito che sta investendo i Paesi occidentali, con l’Italia in mezzo, stia portando al capolinea una classe politica che si autodefiniva nuova e non trascurava il retroterra dell’antipolitica. Se per caso fosse così, non c’è successione possibile. Il cambiamento sarebbe radicale e senza Bossi, da una parte, e senza Berlusconi, dall’altra ci si dovrà rassegnare a una nuova e altra politica.
Pensare a “piccoli” Bossi e a “piccoli” Berlusconi appare solo come un’illusione.
Precisazione finale: questo discorso non vale solo per i due leader di maggioranza. Vale anche per la complicata e variegata opposizione al centrodestra. In definitiva, per tornare alla Lega, l’impressione più fondata è che a Bossi, nella Lega, malgrado gli attuali dissensi, non succederà nessuno. Per una prospettiva lunga, almeno.