Sono ben 1.210.466 le firme che oggi il comitato referendario ha consegnato alla Corte di Cassazione. Un risultato al di là di ogni aspettativa, raggiunto in due mesi di campagna referendaria. «Un fatto positivo che, mi auguro, rappresenti per il Parlamento un’indicazione non solamente generica», afferma, interpellato da ilSussidiario.net, Stefano Ceccanti, senatore del Pd e professore di Diritto pubblico comparato nell’Università La Sapienza di Roma. I casi sono due: o i quesiti referendari vengono accettati dalla Corte costituzionale, e viene abrogato il sistema elettorale vigente, il Porcellum (ma, a quel punto non è chiaro se si tornerà automaticamente al sistema precedente o se ci sarà un vuoto legislativo); oppure la maggioranza – cui l’ipotesi di un ritorno al proporzionale sarebbe invisa – si affretta a varare una nuova legge elettorale. Comunque vadano le cose, «il quesito referendario va nella direzione di far scegliere ai cittadini i propri rappresentanti, cosa che, al momento, non è possibile», dice Ceccanti. Postulata l’ipotesi, «la spinta referendaria deve aggiungersi alla scelta diretta dei governi, non sostituirsi», auspica il senatore. Ovvero: «il sistema – spiega meglio – deve comunque continuare a mantenere dei forti incentivi bipolari in modo che il governo venga fuori dalle urne. In sostanza, ci devono essere degli elementi che facciano sì che qualcuno, effettivamente, vinca». Secondo il professore, poco importano i dettagli: «Dal punto di vista tecnico, ci possono essere varie alternative». L’importante è che, oltre alla questione della scelta del governo, resti in piedi un altro pilastro: «ci devono essere collegi abbastanza piccoli da far sì che tutti gli elettori conoscano il rappresentante di quella zona». Per Ceccanti, infatti, le preferenze, di per sé, non sono sinonimo di democrazia. «Un sistema di preferenze, in collegi molto grandi, in realtà non attribuisce alcun potere agli elettori. Li attribuisce, al contrario, a chi dispone delle risorse adeguate per poter canalizzare i consensi». Il che, espone nuovamente la democrazia a dei rischi ben noti: «in grandissimi collegi – aggiunge -, che richiedono milioni di euro per la campagna elettorale, è alto il rischio di infiltrazioni mafiose e voti di scambio».
Non è solo questo il punto: «Nel caso delle europee, dove le infiltrazioni sono ridotte al minimo, resta il problema che chi si candida deve disporre di milioni di euro, o essere un giornalista televisivo già noto. Salvo pochi rarissimi casi, la bravura non è sufficiente». In sostanza, «più il collegio diventa grande, più si crea uno sbarramento censitario o di stampo lobbistico».