Il professor Giulio Sapelli, economista, è perentorio. «Penso che i banchieri centrali in queste situazioni devono tacere. Questa dichiarazione fatta a borse aperte è stata di una gravità assoluta, e ha senz’altro incoraggiato le vendite. Non me lo sarei mai aspettato». Sapelli commenta così la notizia di ieri pomeriggio, quando Mario Draghi, governatore di Bankitalia e prossimo presidente della Banca centrale europea, fa sapere che i paesi dell’area euro «non devono dare per scontato» che la Bce compri ancora i loro titoli di debito. Nel frattempo i listini erano in caduta libera. Ieri Milano ha bruciato 16 miliardi (Piazza Affari -4,83%), mentre lo spread tra il bund tedesco e i Btp italiani è volato a 370 punti. Nuove cifre record che fanno tremare i polsi. «È vero: questo governo non ispira fiducia» continua Sapelli «però il Belgio, che da mesi non ha un governo e ha pure lui un debito eccezionale, cresce a tassi promettenti».



Ma il Belgio non è l’Italia.

Vero. Ma ciò che i mercati colpiscono non è il debito pubblico, è l’assenza di prospettive di crescita. E i paesi che non crescono, come l’Italia, finiscono nel mirino dell’oligopolio finanziario mondiale, che sono poi le grandi banche internazionali.

Per quali ragioni il governo non ha saputo dare un’impronta politica ed economica forte alla manovra?



Una manovra economica è sempre il prodotto di una sintesi tra diversi interessi. Una politica fondata su partiti deboli – ma su sistemi di interesse fortissimi, perché radicati in una società civile che si è ormai impadronita della politica e l’ha piegata ai suoi fini – impedisce la sintesi. Non si riesce a trovare alcun buon compromesso, e tutto è scontro di potentati, di cacicchi, di personale politico che rappresenta l’elettore ma che non si distacca da esso e non sa più interpretare interessi generali.

In serata il presidente Napolitano ha sollecitato «misure più efficaci».



Il colmo è che il governo non ha neppure il coraggio di chiedere la fiducia. Il capo del governo dovrebbe prendersi la responsabilità di portare in Parlamento una legge sulla quale non si discute. Ci ritroviamo invece alla mercé di interessi collusivi e di veti fortissimi.

Ma Berlusconi ha ancora in mano la maggioranza o è definitivamente logorato?

Berlusconi è stato un grande politico fino a quando ha avuto la capacità di fare aggregazione intorno a sé. Oggi è costretto a compensare le istanze centrifughe attraverso una politica di condiscendenza verso interessi locali che fanno numero, ma non fanno politica.

Nella dialettica che lo oppone a Tremonti chi o che cosa prevarrà? La spesa o il rigore?

Prevarrà la spesa. La cosa più preoccupante è che le istituzioni europee abbiano perso fiducia anche in Tremonti: un ministro dell’Economia che in due mesi non riesce ad imporsi, e che per di più fa riferimento ad una forza politica contraria all’aumento dell’età pensionabile e già proiettata verso il dopo Berlusconi, non è più autorevole. Per certi versi ora Berlusconi è divenuto più affidabile di Tremonti.

Intanto a Cernobbio Alessandro Profumo si è candidato ministro.

Vi vedo un episodio del tentativo in corso di dare una svolta alla politica italiana seppellendo definitivamente la democrazia basata sui partiti. Si vuole sostituirla con un apparato poliarchico, non più democratico, fondato sulla rappresentanza tecnocratica di interessi economici.

Domanda spontanea: ministro di quale governo?

Mi pare che le persone che lo candidano siano le stesse che vogliono Prodi presidente della Repubblica e Montezemolo capo del governo. Forze che rappresentano ciò che rimane di quel «piccolo» establishment dell’industria della finanza che non ne può più di Berlusconi, e che al tempo stesso è ostile ad una ricostruzione della politica di ispirazione popolare.

È questa secondo lei il male profondo della crisi italiana?

Certamente. Ci si illude che la soluzione possa avvenire attraverso lo sgretolamento definitivo dei partiti: «basta coi partiti, viva un governo tecnico». Ma un governo tecnico in Italia lo abbiamo già avuto, e non mi pare che ne siamo usciti bene. In fondo le radici di questa crisi sono proprio in quel governo.

Di chi stiamo parlando?

Di un governo tecnico che ha svenduto il nostro potenziale industriale e aumentato il carico fiscale, aprendo un ciclo non virtuoso e minando le basi della crescita. Diciamo pure che Ciampi sta all’Italia come Eltsin sta alla Russia. Senza nulla togliere, sia chiaro, a persone di grande coraggio e integrità che ne hanno fatto parte. Va anche detto che negli anni successivi centrodestra e centrosinistra non hanno combinato assolutamente nulla.

I guai del Pd fanno parte della strategia di «sgretolamento» dei partiti?

A mio avviso, sì. Non si tratta di assolvere Penati, però non è un caso secondo me che quella vicenda venga fuori adesso.

È una manovra ad orologeria anche la vicenda Tarantini che inguaia Berlusconi?

Quello mi pare semplicemente l’ennesimo capitolo di un tentativo che dura dal ’94. Da quelle parti non c’è solo Tarantini; non faccio nomi, ma c’è un altro protagonista della vita politica di quelle terre che viene minacciato.

Dunque si lavora per far dimettere Berlusconi. Vada avanti, professore.

Non è un copione difficile da immaginare. Il governo, logorato, si dimette. A quel punto il Capo dello Stato convoca un governo di salute pubblica, che si fa senza elezioni, perché non si possono fare le elezioni in un momento di crisi, no?, e si incarica un tecnico esponente del grande oligopolio finanziario. Ma hanno fatto male i conti, perché siamo ancora una repubblica parlamentare con un presidente intenzionato a fare il garante della Costituzione.

Qual è l’asso nella manica di chi auspica un governo tecnico?

Il vuoto terribile che c’è nella politica. Vedo il rischio di una inesorabile decadenza parlamentare. Bisogna stare molto attenti, perché non è detto che l’essere in Europa garantisca la democrazia: ci sono tante forme di sottrazione della democrazia che possono avvenire in modo strisciante. Siamo davvero in una situazione molto triste e molto complicata, e non c’è da essere ottimisti.

(Federico Ferraù)