Almeno una novità, Bossi l’ha introdotta: dal vecchio “piove, governo ladro”, al nuovo “piove, governo tecnico”. Con l’aggiunta di un risibile ultimatum a Berlusconi, decretato dalla piazza milanese: o fa cadere Monti, o la Lega fa cadere Formigoni. Se avesse battuto i pugni col Cavaliere quando, dall’inizio del 2009, continuava a sostenere contro l’evidenza che tutto andava bene, oggi Monti continuerebbe a fare il professore. Ma tant’è, i riti di piazza sono sempre gli stessi, e spesso servono per mascherare i guai interni. Che nel Carroccio non mancano. Ma che non si possono ridurre alla contrapposizione tra uno di Varese (Maroni) e uno di Busto Arsizio (Reguzzoni): fosse così, la questione meriterebbe al massimo un titolo a due colonne nelle pagine interne della “Provincia di Varese”.



In realtà, ciò che è in gioco è la strategia futura del movimento, e la sua collocazione in un quadro politico che alle elezioni dell’anno prossimo verosimilmente non sarà più lo stesso. Qui si scontrano due posizioni: quella di Bossi e dei suoi più fedeli pretoriani, che privilegia il rapporto a doppia mandata con un Berlusconi, destinato comunque a conservare un peso strategico anche senza fare il premier; e quella di Maroni, che punta su una Lega mantenuta in un centrodestra peraltro ben diverso da quello odierno, ma con un ruolo determinante e non più subalterno.



La linea bossiana è chiaramente in declino. In otto anni di governo, ha portato ben pochi risultati concreti, e ha costretto la base a ingoiare bocconi indigesti, mettendo a rischio l’ampio consenso elettorale conquistato tra il 2008 e il 2010. All’interno, Bossi appare sempre più annebbiato e ondivago, dalla vicenda Cosentino a quella Maroni. Inutile girarci attorno, il silenziatore al suo vecchio compagno d’armi l’aveva deciso lui, salvo rifugiarsi nell’ennesima capovolta e cecchinare Reguzzoni; scaricando infine sui giornalisti, come di consueto, la responsabilità di contrasti interni a suo dire inesistenti. Il vecchio Capo magari coltiva l’idea di continuare a controllare la Lega per interposta persona; ma è il primo a sapere che tutti quelli del cerchio magico messi insieme, figlio compreso, non valgono la metà di lui anche ora che è logoro, e non solo fisicamente. E dovrebbe spiegare anche alla sua base il curioso metodo seguito nella scelta dei tesorieri del partito: dal Patelli dei 200 milioni di tangentopoli al Belsito degli investimenti in Tanzania.



Maroni punta su una linea alternativa, che muove da una considerazione per così dire matematica: gli elettorati del Carroccio e del Pdl sono dei vasi comunicanti, in cui i cali dell’uno corrispondono a incrementi dell’altro, come dimostra l’andamento di voto degli ultimi quindici anni. Prevale il verde nel 1996 e nel 2008, domina l’azzurro nel 2001 e nel 2006; sempre sottraendosi consensi a vicenda. L’intento dichiarato di Maroni è di fare della Lega il primo partito al Nord per ricalibrare la vecchia alleanza da posizioni di forza. Lo è già in Veneto, e nel Lombardo-Veneto è distanziato dal Pdl da un solo decimale. Pur parziale, il test amministrativo di primavera deve servire nel suo intento a collaudare questo impianto; ed è perciò che insiste sulla corsa in solitario del Carroccio.

È una strategia, la sua, che ha bisogno chiaramente di un saldo consenso interno: perciò diventano fondamentali i due congressi regionali veneto e lombardo, molto più di quello federale; che da sempre, si svolga o no, è una formalità circoscritta all’applausometro per Bossi. Ma entrambe le posizioni potrebbero essere spiazzate da un’inedita piega del quadro politico. Se Monti durasse, all’attuale maggioranza tattica a suo sostegno potrebbe magari balzare l’idea di diventare strategica. E di riproporre nel 2013 (quando la crisi non sarà comunque alle spalle) una sorta di “grande coalizione”. Che renderebbe marginale il ruolo di una Lega magari premiata elettoralmente per la sua opposizione. Ma, proprio come le accadde nel ’96, con i voti in versione capitan Findus.