Napolitano pone al dibattito l’urgenza di fare la riforma elettorale, per definire come si tornerà al governo politico.
Le opinioni politiche prevalenti sono per un bipolarismo, magari senza premio di maggioranza, ma con un minimo di scelta del candidato con preferenze e con primarie. Eppure tutti i dirigenti politici attuali preferiscono un verticismo delle decisioni di selezione della classe dirigente, la quale diventa casta separata dal popolo se non si definisce con nuovo vigore la soggettività del popolo e il suo diritto a delegare i rappresentanti.



Io sono convinto che ci sono delle questioni culturali su cui dare battaglia. E le propongo.
Lo Stato sin dalla sua nascita è caratterizzato dalla sua natura di servire alla comunità umana. Dico questo per negare la teoria marxista che pone lo Stato come forma del potere nella divisione in classi della società.
Dal Medioevo, lo Stato ha ereditato l’eguaglianza delle persone davanti a Dio, dalla cultura greco-romana ha ereditato la tradizione dei “senatori” come delegati delle espressioni sociali.



Ma è solo dal 1.500 che si pone, a Firenze con la famiglia de Medici, la questione del potere che deve cercare l’approvazione del popolo. Come espressione di un vertice più autorevole dopo l’epoca dei comuni.
Per questo uno studio della politica parte, a ragione, con  Il Principe di Machiavelli, il primo teorico del compito di chi deve governare.

Approvo dunque la scelta fatta da Jean-Jacques Chevallier nel suo testo “Le grandi opere del pensiero politico” che comincia proprio con la sintesi di Machiavelli. È rileggendo questo testo fondamentale che mi sono reso conto che dal 1.500 a oggi non si è affermata ancora la questione di contenuto del rapporto fra Chiesa e Stato.



Il Rinascimento ha avuto, come principale lavorio dell’intelligenza collettiva, l’esigenza di staccare la Chiesa dallo Stato, come un’esigenza politica proposta in modo critico verso la Chiesa.
Non è mia intenzione svolgere il compito dello storico, lavorare sul perché della contrapposizione Stato-Chiesa, ma devo porre da subito il punto critico verso Machiavelli, primo teorico dello Stato.

Aveva la convinzione che il Cristianesimo fosse debilitante, estraneo alla virtù. Da Machiavelli in avanti, si vede che tutta la teoria politica è stata sviluppata nell’idea che il Cristianesimo non ha incidenza storica, ma solo morale.

L’idea hegeliana del movimento autonomo del pensiero, che ha il suo vertice nella coscienza etica dello  Stato, è il fondamento dell’illuminismo e del pensiero politico contemporaneo. In tal modo alla religione si è tolto il popolo.
Le conseguenze nel secolo delle ideologie sono state tremende, il potere totalitario ha fatto dello Stato etico il solo luogo delle identità. Il popolo è stato disgregato da nazismo e comunismo. Ma con la caduta del totalitarismo, la critica delle ideologie non ha fatto ritorno all’identità di popolo.

Io credo che oggi sia necessario rivisitare tutti i passaggi del pensiero politico accettando la sfida di dimostrare che “libera Chiesa in libero Stato” non significa che la società si genera per suo conto, senza l’incidenza del Cristianesimo.

Come dice Benedetto XVI, nel suo secondo libro su Gesù: «la resurrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia». Ma questo si comprende solo se intendiamo il Figlio di Dio presente in mezzo a noi. Dunque il re dei popoli, il fattore che genera il popolo nuovo. Un popolo vuol dire una cultura, una consapevolezza, l’accumularsi della conoscenza che viene dall’esperienza. Altro che movimento autonomo del pensiero. Il pensiero non elabora se stesso, ma compie i salti che gli derivano dall’esperienza prodotta nel fare assieme degli uomini.

Ma a causa di quella forma di partenza del Rinascimento si deve riconoscere che l’incidenza storica del cristianesimo è avvenuta quando e là dove si è saputo andare controtendenza, ovvero rivoluzionando le idee dominanti.

Tocqueville lo dice molto bene nella sua analisi della democrazia americana come gli appariva nella prima metà dell’800. La base di tale democrazia è l’eguaglianza delle condizioni per tutte le persone facenti parte della nazione. Tocqueville fa risalire questa caratteristica nelle radici cristiane dei migranti che hanno fatto gli Stati Uniti.

Eppure non è questa la cultura che abbiamo oggi della democrazia. Diffusamente si è pensato che la scienza e il progresso abbiano emancipato la condizione umana a tal punto che la casta intellettuale, il vertice pensante, che sia massoneria o circoli dei ricchi e potenti, possiede la cultura che può far  fare allo  Stato il suo compito di  generare l’eguaglianza e la giustizia.

Oggi, nel ventunesimo secolo, apparentemente senza ideologie, siamo davanti al fatto evidente che la democrazia langue nell’esclusione del popolo dalle scelte del potere. E ci si domanda quale futuro avrà la democrazia.
Io penso che c’è il bisogno urgente di restituire al popolo la sua soggettività, facendolo attore della democrazia.

È giusto ripetere continuamente che la politica non salva. Perché il popolo si genera nella ricerca del senso del vivere, ricerca dunque di perdono e di salvezza. Ricerca che ha le sue basi nel senso religioso che il Creatore ha infuso in ogni uomo.

Lascio alla Chiesa il compito di rifare popolo. E non solo il compito di dare una base morale alla società che il potere vuole costruire. Di fronte a un popolo che si ricompone, diventa chiaro, per chi si occupa di politica, che si deve mettere il potere al servizio del popolo. Questo vuol dire collocare la consapevolezza, il desiderio, l’iniziativa, il fare assieme, nel popolo e non nella politica.

Dunque sono contrario alla centralità della politica. Riprendo il mio motivo giovanile: servire il popolo, la politica come servizio.
Per questo chiedo al dibattito culturale di attraversare criticamente il pensiero politico, avendo come valore di partenza la distinzione fra potere e popolo, e sapendo dire cos’è il popolo.
È un lavoro che si può fare con l’esperienza della vita comunitaria, e per questo non è riservato agli intellettuali.

Ribadisco ancora una volta: fare politica dal basso.