Benché il referendum sull’abolizione dell’attuale sistema elettorale, il “Porcellum”, sia stato definito incostituzionale dalla Consulta, le ambizioni referendarie restano all’ordine del giorno. I supremi giudici hanno rigettato i quesiti in virtù di motivazioni tecniche. Ma la riforma elettorale va fatta. Tutte le forze politiche ne sono consapevoli. I margini di manovra per trovare un accordo al rialzo ci sono; il governo Monti, con ogni probabilità, non metterà becco in una questione così squisitamente politica. Ai partiti non rimane che mettere a punto una soluzione condivisa. Partendo, magari, dalla proposta di legge depositata il 27 gennaio dal senatore del Pd Stefano Ceccanti, cui abbiamo chiesto di illustrarcene il contenuto.
Quali sono, in sintesi, i capisaldi della sua proposta?
Sono due: l’introduzione della possibilità di scelta diretta dei rappresentanti (senza cadere nelle preferenze) e della legittimazione diretta dei Governi, grazie al superamento del premio di maggioranza. Tali elementi rimedierebbero ai due difetti principali del sistema attuale: liste bloccate lunghissime con candidati non conoscibili e incentivo attraverso il premio a formare coalizioni eterogenee.
Lei definisce il suo sistema ispano-tedesco: perchè tedesco?
Dal punto di vista della scelta dei rappresentanti il sistema è integralmente tedesco: metà eletti in collegi uninominali e metà su liste corte, con candidati riconosicibili, senza preferenze. La novità, qui, è la possibilità del ricorso incentivato alle primarie, mentre in Germania si ricorre a procedure democratiche tra i soli iscritti.
Perché, invece, ispanico?
Dal punto di vista della legittimazione diretta dei governi il sistema adotta una correzione spagnola, cioè non fa un conteggio complessivo dei seggi, ma solo a livello di circoscrizione pluriprovinciale, senza recuperare eventuali resti. Per questo le forze minori vengono comunque rappresentate, prendendo un significativo diritto di tribuna nelle circoscrizioni più grandi.
La loro sottorappresentazione consente di premiare le forze maggiori a vocazioni maggioritaria senza che debbano essere ingabbiate in coalizioni coatte per ottenere l’attuale premio, che viene eliminato. Le forze medie e quelle territorialmente concentrate (purché abbiano sul piano nazionale il 3% dei voti o siano espressive di minoranze linguistiche) hanno una rappresentanza abbastanza fedele.
Perché, secondo lei, il sistema migliore resta quello fondato sui collegi uninominali maggioritari a doppio turno?
L’uninominale a doppio turno sarebbe comunque migliore, perché l’elettore lo comprenderebbe meglio, dato che generalizzerebbe quello che già si fa con soddisfazione per i sindaci. La proposta Pd lo perfeziona ancora perché, inserendo un recupero proporzionale, evita aree geografiche di rappresentanza monocolore. Ma è importante trovare un punto di sintesi.
Concretamente, ritiene possibile che i due terzi del Parlamento si accordino sulla sua proposta?
Penso che la proposta si presti a una convergenza ampia o, comunque, che possa contribuire ad andare verso soluzioni con un tale livello di consenso da poter avere finalmente una legge condivisa e, quindi, stabile.
In che tempi, quindi, si potrebbe giungere a un accordo?
La finestra migliore per un’approvazione è quella tra il secondo e il terzo trimestre, tenendo conto che, poi, andrebbero ritagliati i collegi.
Quali resistenze politiche potrebbe incontrare la sua proposta?
Non so quali resistenze potrebbe trovare, ma chi le dovesse porre si renderebbe responsabile di fronte al paese di votare con l’attuale legge e ne potrebbe pagarne il prezzo.
Pensa che, eventualmente, un’eventuale riforma sarà approvata prima delle elezioni, o si andrà a votare con l’attuale legge?
Penso che si debba cambiare e che si possa anche ragionevolmente farlo.