Non posso e non voglio più dir nulla sul governo Monti. Mi si guarda – per le critiche da me formulate – in modo sospetto; taluni lo fanno in modo minaccioso e mi si dà del berlusconiano, e soprattutto, del non adulatore di un mito nazionale neo-liberista: l’Università Bocconi. Sono preoccupato. Non per me, perché proprio non mi aspetto nulla dal potere e dall’opinione pubblica, che in Italia, come è noto, coincidono strettamente, non esistendo una pubblica opinione in senso anglosassone, ma solo in senso populista neo-mass mediatico. Non per me, dicevo, ma per coloro che con me condividono sfere dei loro mondi vitali. Per via del contatto sociale con il sottoscritto possono venir minacciati ed esclusi in una società omofiliaca come la nostra, che non prevede che i legami sociali professionali possano fondarsi sulla libertà e sulla differenza delle idee, scontata che sia l’eccellenza professionale.
Per questo credo che questo mio contributo per Il Sussidiario, a cui sono fedele idealmente, sarà l’ultimo intervento sullo stato di dittatura romana in cui il nostro Paese si trova e sui provvedimenti emanati dai dictator (si veda su ciò il glorioso manuale di diritto costituzionale romano di Antonio La Bruna) che ci governano. Mi hanno chiesto di dir qualcosa di non banale sul decreto legge in materia di semplificazione e sviluppo. Lo farò. Vengo al dunque, manca ciò che tutti si attendevano: l’eliminazione del valore legale della laurea, che potrebbe costituire l’asse portante di una riforma dell’istruzione superiore che attendiamo da anni, non può essere sostituita dal portale unico digitale universitario e da altre amenità telematiche.
Quel passo era ed è quello decisivo per introdurre un sistema di autonomia dell’università italiana che la conduca gradualmente a espellere dal suo corpo le tossine di un accumulo assistenzialistico e non meritocratico che l’ha via via portata sull’orlo della distruzione in circa un quarantennio di malgoverno, dopo le funeste età post-sessantottine, allorché al rigore fu sostituito il fanatismo ideologico e la rassegnazione a una didattica populistica, ponendo al centro dell’università la sua autoriproduzione (dei professori e degli studenti non meritevoli, in primis), anziché il progredire e il rinnovarsi della cultura umanistica e scientifica, chè l’una va di pari passo con l’altra. E di lì la proliferazione di università scadenti pubbliche e private e di materie avulse da ogni contesto culturale…
Se collego questa inerzia con la volontà distruttrice che si è esercitata contro l’Agenzia sul not for profit, abolita con un tratto di penna senza una discussione politica e culturale, vi leggo l’arretratezza culturale e l’ossessione statalistica di questo governo che non riconosce l’importanza della sussidiarietà e non capisce che tra Stato e mercato c’è un terzo attore: l’associazione dei liberi e dei forti in comunità, siano esse cooperative o not for profit. Segnalo che quell’agenzia era l’unica a non retribuire i suoi consiglieri. E questo a fronte, invece, di un governo che è più che mai statalista, promuovendo l’istituzione di authorities e di agenzie a ogni piè sospinto.
Penso anche all’agenda digitale e alla banca dati dei contratti pubblici e degli affidamenti dei servizi finanziari. Tutto si telematizza centralizzando, rinverdendo un tema un tempo classico nella discussione dell’informatica: il suo più o meno alto grado di accentramento o di decentramento. Qui tutto si accentra e nulla si concede ai Comuni e agli enti locali e si complicano vieppiù le “conferenze di servizio”, che ora saranno digitali, pensate un po’, e non un’agorà di libera discussione come oggi sono, anche se tanto farraginose. Forse era meglio abolire le conferenze e trasferire poteri alle amministrazioni locali, salvo restando i poteri essenziali a uno Stato che si rispetti: forte Stato e forti autonomie locali! Ma questo voleva dire affrontare il buco nero della vera semplificazione: l’elefantiasi delle Regioni, che si sono trasformate in nuovi Stati accentratori e divoratori di risorse.
L’unico aspetto veramente positivo, bisogna dirlo a gran voce, rimane quello della fine delle farraginose misure che impedivano alle imprese di procedere speditamente verso la creazione di se stesse e che spostano al tempo ex post e non all’ex ante le procedure di controllo. Qui si tratta di una svolta molto, molto, positiva, che va sottolineata con forza e su cui bisogna invitare il governo a meditare per far di essa l’asse di una politica e di una cultura: si passa da un’antropologia negativa a un’antropologia positiva dell’imprenditore e di chiunque voglia dar vita a un’iniziativa economica e, lo spero in futuro, a qualsivoglia attività sociale e culturale.
Non tutto è buio, dunque. Certo, si rimane stupiti dinanzi al giusto provvedimento preso a fronte delle esigenze degli autotrasportatori, limitando i tempi per l’esercizio pieno della professione, e ai ritardi che invece ancora sovrastano altre categorie in questo campo. Anche nei confronti dei cosiddetti tecnici i rapporti di forza sociali hanno un certo effetto, evidentemente. In fondo non è un segnale negativo. A meno che non si voglia porre al posto della politica una sorta di forum informatico e decisionale che tutto trasformi in funzione; distruggendo, quindi, ogni segnale di senso e quindi di vita spirituale e morale nell’esercizio del governo.
Di questo occorre rallegrasi e antropologicamente sperare in un senso positivo dell’“essere governo”, anche se esso sinora si manifesta così privo di umanità. Ma la speranza, ricordiamola ancora una volta con Péguy, è una virtù bambina. Speriamo, dunque, cristianamente, ancora una volta.