L’intenzione del Governo di intervenire a correggere alcune distorsioni del Titolo V della Costituzione va salutata con favore. Per un commento più accurato bisognerà leggere con attenzione il testo uscito dal Consiglio dei Ministri, ma la necessità di un intervento correttivo è ormai un punto fermo. Va razionalizzato l’eccessivo elenco delle materie concorrenti. Va poi corretto l’anomalo federalismo di complicazione per superare lo scoglio su cui si sono spesso incagliati i processi statali di semplificazione: per questo, ho scritto qualche giorno fa su Il Sole 24 Ore, è opportuna una clausola costituzionale che assegni allo Stato una corsia preferenziale per dettare misure di semplificazione incidenti in modo trasversale sulle competenze regionali e locali: non ha senso che ogni comunello abbia cinque o sei regolamenti edilizi differenti da quelli del comunello vicino o che le Regioni possano tentare di bloccare le riforme che rafforzano le autocertificazioni solo perché ineriscono a loro materie. Andrebbe infine rafforzato il potere sostitutivo statale, permettendo un più incisivo intervento nelle cosiddette “Regioni canaglia” (quelle che ristagnano in disavanzi endemici): non è logico che il commissario debba essere lo stesso Presidente di Regione che ha causato il dissesto o che non è riuscito a sistemare i conti. Meglio avere un Bondi, in quei casi, che un Bassolino o una Polverini.
Ma in questo clima rovente, per non lasciarsi trascinare solo dalla emotività, è anche utile ricordare come è nata quella riforma del 2001 di cui oggi ci si lamenta: venne approvata con uno scarto di soli cinque voti in limine mortis della tredicesima legislatura, nel tentativo di strappare al centrodestra la bandiera del federalismo, che costituiva in quel momento il collante con la Lega Nord. Per farla passare con quei tempi e quei numeri la riforma fu depurata da quegli aspetti che avrebbero richiesto un più ampio consenso e un più accurato esame, come il Senato federale. Ne è uscito un federalismo pasticciato, di fatto ingestibile per mancanza di strumenti di vero raccordo politico tra il governo centrale e il sistema delle autonomie. Il prezzo pagato è stato altissimo non solo nei termini dello spaventoso contenzioso che si è sviluppato di fronte alla Corte costituzionale, ma anche sul fronte della funzionalità del sistema.
Lo dico da tempo e non semplicemente sull’onda degli scandali recenti: la relazione che il Governo presentò il 30 giugno 2010 al Parlamento sullo stato di attuazione del federalismo – che venne redatta in base al contributo della Commissione che presiedo – si intitolava, significativamente, “l’albero storto”. Di storture ne avevamo rilevate parecchie: basti ricordare l’assurdo federalismo contabile, ottenuta assegnando alla competenza concorrente la materia “armonizzazione dei bilanci pubblici” (già giustamente riportata allo Stato dalla riforma sul pareggio di bilancio), per cui ogni Regione si è approvata una propria legge di contabilità che ha minato quella trasparenza delle politiche che è il cuore di ogni federalismo.
Nelle materie concorrenti, inoltre, nel 2001 sono state fatte rientrare anche “grandi reti di trasporto”, la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, l’“ordinamento della comunicazione”. Il nuovo, abnorme potere legislativo non è poi stato subito accompagnato da un adeguato sistema di finanziamento, perché la legislatura successiva a quella che approvò la riforma, anziché sul federalismo fiscale si impegnò nel tentativo fallimentare della Devolution e il sistema si è quindi sviluppato sulla base del demenziale criterio della spesa storica, le cui disfunzioni sono state elevate a potenza dai nuovi poteri attribuiti.
Nel complesso la riforma del Titolo V ha prodotto luci – ma solo in alcune Regioni, come aver permesso la realizzazione di alcuni modelli regionali di welfare ispirati alla sussidiarietà – e molte ombre. Se il Governo ora giustamente interviene per razionalizzare quanto possibile già in questo fine legislatura, non bisogna dimenticare che la prossima dovrà impegnarsi in un intervento più complessivo. I temi per una razionalizzazione del “federalismo all’italiana”, con alcuni suoi lati oscuri oggi alla ribalta della cronaca possono essere numerosi: ci si può interrogare sulla sensatezza di mantenere forme di autonomia speciale laddove ha clamorosamente fallito, come in Sicilia. Ci si può anche interrogare sulla misura della specialità, divenuta sperequata per l’abnorme privilegio finanziario (davvero imposto così da questioni internazionali?), di Valle d’Aosta o Trento e Bolzano. Soprattutto ci si deve spingere a considerare la sensatezza di continuare senza un Senato federale, con un pletorico bicameralismo paritario che ormai, vero e proprio reperto di archeologia costituzionale, resiste solo in qualche Stato africano.
Bisogna quindi fare attenzione a non buttare il bambino con l’acqua sporca e non dimenticare che alcune (poche) regioni italiane hanno modelli di welfare e di sanità che sono eccellenze mondiali. Per valorizzare questi modelli basterebbe dare attuazione al regionalismo differenziato promesso, ma mai realizzato, dall’attuale articolo 116 della Costituzione. La sua attuazione permetterebbe finalmente di evitare di fare di tutta un’erba un fascio e le regioni virtuose potrebbero così evitare rallentamenti dovuti alle sovrapposizioni tra burocrazia statale e regionale. Nel complesso è un compito imponente.
Qualcuno potrebbe allora chiedersi se vale la pena impegnarvisi o non è meglio tornare a un centralismo stile anni Settanta. Credo che questa seconda scelta sarebbe un gravissimo errore a danno della democraticità e dell’efficienza del sistema. Non possiamo rimpiangere il “centralismo italiano”, all’interno del quale è esploso il debito pubblico e la corruzione che ha condotto poi a Tangentopoli, come un paradiso perduto. Inoltre, oggi abbiamo ceduto enormi quote di sovranità all’Europa e la sovranità popolare persa in alto possiamo solo recuperala dal basso, con un sistema federale razionalizzato: Toqueville – è bene ricordarlo – diceva che la democrazia inizia con la pubblicazione del bilancio sulla Casa comunale.