La deprimente scoperta di numerosi fenomeni di corruzione, sperpero e malaffare nelle amministrazioni regionali e locali, sembra aver segnato un punto di svolta nel sentire comune. Il decentramento istituzionale, il principio di sussidiarietà o, più complessivamente, il federalismo all’italiana sono messi radicalmente in giuoco. Affermazioni che sino a pochi giorni fa erano patrimonio diffuso nella discussione pubblica, sono improvvisamente ribaltate. Se avvicinare il governo della cosa pubblica al cittadino, prima era ritenuto necessario e ripetuto quasi come un mantra, adesso viene considerato alla stregua di un luogo comune. Il mutamento delle parole d’ordine ha accompagnato l’emersione del sentimento di “antipolitica” che, però, si è rapidamente mutato in un progetto politico, quello cioè di ridurre consistentemente gli spazi di autonomia territoriale, ripristinando così un forte potere centrale di governo.
Certo, all’inizio si è incontrata una qualche resistenza, ma strada facendo – e scandali aumentando – il percorso verso il riaccentramento si è dimostrato più facile. Si può ricordare, ad esempio, che già il governo Berlusconi, sulla scia della famosa indicazione contenuta nella lettera della BCE, propose la soppressione delle Province mediante un decreto-legge; vi rinunciò, presentando però nello stesso tempo un disegno di legge costituzionale che cancellava la parola “Province” da tutta la Costituzione. Il Governo Monti ha seguito la scia, e prima ha deciso – sempre con decreto-legge – la riduzione e l’accorpamento delle Province, poi, in seguito all’opposizione manifestatasi in seno alle forze parlamentari, in sede di conversione ha accettato la via del “riordino” delle Province.
Ma, su come sia stato impostato questo procedimento di riordino, c’è ben poco da rallegrarsi. E’ stato richiesto ai “Consigli delle autonomie locali” – organismi di rappresentanza degli enti locali in ambito regionale, che peraltro sono previsti dalla Costituzione per svolgere tutt’altra funzione – di formulare una cd. “ipotesi di riordino” in poco più di due mesi dal momento in cui il Governo stesso ha stabilito due requisiti minimi collegati alla dimensione territoriale e alla popolazione residente. Facendo un parallelo, per l’appunto ipotetico, è come se l’Unione europea, in un domani forse non troppo futuribile, chiedesse agli Stati membri di riordinarsi sulla base di standard minimi inerenti alla dimensione e alla popolazione: cosa ne sarebbe, allora, del Belgio, dell’Olanda, o anche della Repubblica ceca o dell’Austria? Le prime due si dovrebbero necessariamente accorpare, così come le seconde due, per raggiungere i “requisiti minimi” imposti dall’autorità centrale senza alcun riferimento, ad esempio, alla realtà dei dati sociali, geografici, religiosi o linguistici, ovvero senza tenere in alcuna considerazione le palesi esigenze derivanti dai sistemi infrastrutturali esistenti, dalle fonti di energia disponibili, o, ancora, dalle disponibilità e dalle risorse economiche e produttive?
E’ evidente, invece, ciò che il costituente ha voluto allorché è stato scritto il vigente art. 133 Cost.: non si possono istituire nuove Province o modificare quelle esistenti, se non sulla base dell’iniziativa dei Comuni, sentita la Regione interessata e, infine, con legge della Repubblica. Il procedimento di riordino che adesso è in corso di svolgimento, è palesemente diverso da quello previsto nell’art. 133 Cost. Taluno lo giustifica, rilevando che la Costituzione non disciplina il “riordino complessivo” di tutte le Province, ma solo il singolo procedimento di istituzione o di modifica di una data Provincia. Insomma, nel silenzio della Costituzione, si può fare ciò che la Costituzione non prevede. Ma, a tacere d’altro, in cosa consiste, alla fine, questo procedimento di riordino, se non nell’istituzione o nella modifica delle singole circoscrizioni provinciali?
Ma vi sono ulteriori dubbi. Manca nella Costituzione una disposizione che consenta alla legge dello Stato di disciplinare il procedimento di determinazione delle circoscrizioni provinciali. Non vi è, cioè, la norma costituzionale che possa legittimare la legge recentemente approvata che ha “inventato” il predetto procedimento di riordino. La Costituzione, modificata nel 2001, prescrive che là dove non sussiste una competenza legislativa attribuita alla Stato, la competenza è della Regione. Tanto più che, se, come dicono i difensori del riordino, quest’ultimo è diverso dal procedimento previsto nell’art. 133 Cost., allora dovrebbe dedursi che la competenza sul riordino non si può fondare neppure sull’art. 133 medesimo. Da altra parte, si sostiene che la competenza dello Stato troverebbe fondamento sulla norma che consente allo Stato di disciplinare “le funzioni fondamentali degli enti locali” (come previsto nell’art. 117 Cost.). Ma, anche a prima vista, l’interpretazione suggerita appare difficilmente accettabile: una cosa è dire come si debbano costituire le Province, e un’altra è dire quali funzioni fondamentali abbiano.
Ed ancora, in questo procedimento di riordino si è proibito di tenere conto delle iniziative comunali – rivolte a modificare le circoscrizioni provinciali in virtù dell’espressa attribuzione di competenza costituzionalmente garantita dall’art. 133 Cost. – che fossero pervenute dopo la delibera governativa di fissazione dei requisiti minimi. E ancora, si prevede che ciascuna Regione, sulla base dell’ipotesi di riordino del CAL, in pochissimo tempo – un mese appena – approvi una proposta di riordino che poi sarà trasmessa al Governo. Quest’ultimo, sulla base della proposta regionale o anche in assenza di quest’ultima, sarà promotore di un “atto legislativo di iniziativa governativa” (definizione che non esclude anche il ricorso ad un decreto-legge) che condurrà conclusivamente al riordino delle Province. Insomma, un procedimento effettuato in corsa, quasi senza rete, e con il possibile esito stabilito con decreto-legge e questione di fiducia. Forse, un’eccessiva fretta per decidere su un assetto istituzionale che comporta certamente spese pubbliche, ma il cui riordino “disordinato” potrebbe determinare nel breve e medio termine costi finanziari e amministrativi (si pensi solo al trasferimento del personale e delle risorse strumentali, o alla necessità di rideterminare le scelte amministrative nei nuovi ambiti territoriali) forse comparabili con quelli che si presume di evitare.
Va notato che le “ipotesi di riordino” delle Province sono pervenute da quasi da tutti i CAL, quasi un miracolo di partecipazione attiva e responsabile delle autonomie territoriali che smentisce chi riteneva che questa fase procedimentale fosse stata predisposta proprio per ottenere piena dimostrazione dell’incapacità propositiva degli enti locali su un tema così delicato e cruciale. Una buona parte dei CAL, come noto, ha chiesto di derogare in alcuni casi specifici all’applicazione rigida e meccanica dei requisiti minimi stabiliti dal Governo. Gli osservatori più arcigni non hanno perso l’occasione e hanno accusato i politici locali di voler conservare le poltrone. Forse, si sarebbero dovuto leggere con una qualche attenzione le delibere dei CAL. Ad esempio, è logico che una Provincia sopravviva o al contrario muoia, come nel caso di Arezzo, soltanto perché nel censimento del 2011 (quello che è preso a riferimento dai requisiti governativi) il requisito della popolazione non risulta raggiunto per poche migliaia di persone, mentre alla data del 30 giugno del 2012 lo stesso requisito risulta superato per diecimila abitanti? E ancora, il divieto previsto dalla legge in questione laddove si proibisce l’accorpamento delle Province già esistenti con le istituende Città metropolitane, appare davvero illogico nel caso di Monza e di Milano.
Oppure, si può notare che il riordino consente la istituzione di Province esattamente sovrapposte alla Regione di riferimento; ma un tale esito appare davvero coerente con l’invocata necessità di ridurre le spese pubbliche?
E’ chiaro che i problemi di costituzionalità del procedimento di riordino delle Province, peraltro sollevati da alcune Regioni e su cui si pronuncerà la Corte costituzionale, sono numerosi e di peso. A fronte a tutte le obiezioni che si possono rivolgere, è davvero auspicabile è che l’applicazione dei predetti “requisiti minimi” sia ragionevole, cioè adeguatamente flessibile in relazione ai casi nei quali sussistano motivazioni consistenti che impongano, anche e soprattutto per ragioni di efficienza istituzionale, un adeguamento dei parametri fissati aprioristicamente dal Governo nello scorso luglio, e che certo non possono vincolare la volontà finale che dovrà essere espressa sul punto dal Parlamento. E’ probabile che molto dipenderà dal clima politico complessivo e in specie da come sarà strumentalizzato il senso di fastidio, se non di disgusto, che si diffonde nell’opinione pubblica nei confronti delle istituzioni rappresentative. Tuttavia, l’antipolitica è un sentimento pericoloso per la democrazia. Non dobbiamo dimenticarci, infatti, che l’antiparlamentarismo – che rappresenta l’antipolitica per eccellenza – è stato il terreno su cui si sono sviluppate le forze che hanno condotto ai regimi autoritari e totalitari del ventesimo secolo.
Qualche parola, infine, può essere dedicata al disegno di legge costituzionale che il Governo ha recentemente formulato per riformare il Titolo V della Costituzione, con riferimento, stavolta, alle Regioni. Se andasse in porto, pur con i tempi assai ristretti per la scadenza della legislatura, si apporterebbero senz’altro idonei correttivi ad alcune – non tutte, in verità – storture dell’avventata riforma del 2001. Ma, a tacer d’altro, si può notare che si prevede di attribuire alla competenza legislativa esclusiva dello Stato una nuova materia, quella cioè della “disciplina generale degli enti locali” (come risulta testualmente dal comunicato della Presidenza del Consiglio). Qualcuno, maliziosamente, potrebbe rilevare che si vuole attribuire questa competenza allo Stato proprio per consentire a quest’ultimo di disciplinare con una sua legge anche il procedimento di riordino delle Province. Ma non ci avevano detto che questa competenza era già implicita nella Costituzione?