È fatta. Abbiamo trovato la nuova vittima sacrificale per saziare la voglia infinita di capri espiatori di cui è fatta la politica italiana degli ultimi anni. In verità, bisogna dire che le Regioni ce la stanno mettendo tutta per vestire il ruolo delle nuove vittime sacrificali di turno. Gli scandali degli ultimi giorni fanno davvero ribrezzo e l’uso distorto dei soldi pubblici a fini personali grida vendetta al cospetto di chi non ha i mezzi per arrivare alla fine del mese una volta detratte le tasse dallo stipendio.



La logica torna così ad essere quella primitiva, che governava prima che i greci e i romani inventassero la “politica”: la vendetta. Le Regioni sbagliano e così lo Stato si vendica; e dopo aver (lo Stato) fatto (male) la riforma nel 2001 ora propone la sua “controriforma”. Ripeto perché non ci siano dubbi: quello che oggi sta succedendo è scandaloso e non reagire sarebbe una connivenza, ma il “metodo” della reazione è ciò che vorrei discutere.



Non so, infatti, se ci rendiamo conto che quello che sta accadendo è un vero e proprio paradosso della storia che sarebbe bene tener presente nel por mano a tagli o riforme.

Pochi sanno o vogliono ricordare, infatti, qual è la ragione per cui nel 1948 – unici nel mondo – abbiamo inventato le “Regioni”. Attenzione, non lo Stato federale – come l’America o la Svizzera – né lo Stato centralista – come la Francia – ma una “cosa” inedita: lo Stato regionale. Due furono le ragioni fondamentali.

La prima: il riconoscimento che così come la famiglia, il partito, la scuola, la parrocchia o la casa del popolo, sono tutti legami che vengono prima dello Stato, anche le comunità locali vengono prima dello Stato e tra queste non solo i “vecchi” enti locali liberali (il Comune e la Provincia) ma anche questa nuova “comunità” di area più vasta che è la Regione, dotata – a differenza degli altri – di una vera e propria autonomia politica e non solo amministrativa. Non è un caso, dunque, che a questa parte della Costituzione lavorarono soprattutto i cattolici.



Ma è la seconda ragione che oggi appare ancor più paradossale. Le Regioni furono pensate come il “laboratorio” della nuova classe politica italiana. I costituenti, infatti, erano ben consapevoli che ormai il vecchio stato liberale e la sua classe politica (un ristretto club di notabili borghesi) non esistevano più ed il fascismo per vent’anni aveva soffocato la nascita di una nuovo ceto politico abituato al confronto democratico. Per questo oltre il Parlamento nazionale a Roma, furono create venti “scuole” di politica per chi volesse cimentarsi con questa nuova attività. Moltiplicare le “palestre” in cui allenare una nuova generazione di politici più vicini ai bisogni dei cittadini e per questo più adeguati alle nuove sfide.

E cos’è successo? In questi quarant’anni le Regioni – salvo qualche rilevante eccezione − non sono riuscite a produrre una “propria” classe politica, più responsabile e più adeguata di quella statale. La linfa proveniente dal circuito regionale non ha fatto fiorire una nuova “qualità” della rappresentanza politica. E la dimostrazione più evidente è che le Regioni, salvo le stesse eccezioni di cui sopra, sono state spesso in questi anni esempi di “centralismo” in miniatura, non avendo saputo elaborare “politiche” diverse, ma solo in scala ridotta.

Ad essere sotto accusa, quindi, è la qualità della classe politica italiana per la sua sempre più patente incapacità a perseguire realmente il bene comune e per la facilità con cui questo bene – che è il vero fine della politica − viene scambiato con il proprio interesse o tornaconto. 

E allora appare veramente farisaico l’astio con cui oggi ascoltiamo i politici nazionali scandalizzarsi dei fallimenti dei loro colleghi regionali, colleghi dai quali sono del tutto indistinguibili.

Mettiamo, dunque, nel mirino le Regioni, ma dobbiamo essere consapevoli che queste istituzioni sono spesso popolate dello stesso personale politico che ora si erige a censore.

A me pare che così, per l’ennesima volta, dinanzi all’ennesimo scandalo, non abbiamo il coraggio di centrare la questione reale; come può emergere una nuova classe politica italiana? Chi ha oggi la statura umana e morale per educare al senso della “polis” come scopo della azione pubblica? 

Tipico vezzo italiano è quello di cercare l’“uomo” nuovo che ci liberi dal male. Penso invece che la strada realistica sia un’altra, più lunga ma fruttuosa: occorrono nuove scuole di “bene comune” e palestre di interesse generale in cui far crescere una “generazione politica” nuova. Ma questi luoghi  – con buona pace dei tecnici e dei politici – appartengono alla società prima che allo stato. Lo stato non può produrli, può solo giovarsene. Sto parlando, mi pare chiaro, di qualcosa di ben più rilevante e radicale delle misere orette di “educazione civica” che ancora qualcuno fa a scuola. Si tratta di un’educazione della persona a farsi carico del bisogno e della domanda degli altri (I care diceva don Milani), una attitudine che può svilupparsi e crescere solo all’interno di una relazione personale e sociale. 

Tutto sommato per fare l’ennesima controriforma basta poco: togliamo un po’ di competenze alle Regioni e le passiamo allo Stato. Per affrontare il cuore del problema occorrerebbe una “vera educazione del popolo”.

 

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