Non solo “preferenze sì”, “preferenze no”. Il dibattito sulla riforma elettorale si accende anche su altre caratteristiche del sistema adottato per la scelta della rappresentanza politica in Italia. Uno di questi, e non di secondaria importanza, riguarda il premio di maggioranza. Contro la sua istituzione, prima, ed ora contro la sua confermazione molti prendono ad esempio i sistemi stranieri. «A ben vedere, anche questi però contengono simile premio, sia pure con efficacia incerta e con il pericolo di concedere troppo», spiega Gilberto Muraro, professore ordinario di Scienze delle Finanza all’Università di Padova, interpellato da ilSussidiario.net. «Meglio l’esempio veneto di un premio di maggioranza variabile, calcolato in modo da assicurare la governabilità senza mettere in pericolo le garanzie per le minoranze: risultati che non sono affatto assicurati dal premio di maggioranza fisso in discussione al Senato».



Professore, ci spieghi innanzitutto cos’è il premio di maggioranza “alla veneta”.
Si immagini di chiedere a un computer di trovare una regola elettorale che generi una rappresentanza il più possibile espressiva della volontà popolare ma assicuri anche la governabilità del sistema nonché il rispetto delle garanzie costituzionali per la minoranza; il tutto a Costituzione vigente e quindi in regime parlamentare e non presidenziale. È da credere che il computer non consiglierebbe il maggioritario uninominale all’inglese né il doppio turno alla francese né il sistema pseudoproporzionale a piccole circoscrizioni alla spagnola e neppure il sistema misto tra uninominale e proporzionale alla tedesca (questi due ultimi con soglia di sbarramento contro i micropartiti). Consiglierebbe piuttosto, con gli opportuni adattamenti, un sistema ispirato alla regola elettorale della Regione Veneto (e forse anche di altre Regioni), in cui il Consiglio regionale nasce da un sistema proporzionale con soglia di sbarramento e con premio variabile alla coalizione di maggioranza relativa. Il premio è costituito da una quota di seggi che diminuisce al crescere dei voti ottenuti e che porta la coalizione vincente ad avere non meno del 55% e non più del 60% dei seggi. E ciò perché l’obiettivo non è la medaglia al primo ma è la maggioranza assoluta come base per un governo forte e stabile, senza peraltro regalare un quorum che consenta alla parte vincente di modificare da sola lo Statuto.



Pensa che questa sia la soluzione ottimale anche per le elezioni nazionali?

Ovviamente, la strada è aperta a tutte le possibili varianti in sede nazionale, quali una soglia minima di voti perché scatti il premio (40%?) e una più ristretta forchetta finale di seggi (52-56%?). Importante è che sia rispettato lo spirito di questo approccio, in cui gli obiettivi sono esplicitati e sono sia pure approssimativamente ponderati; dopodiché si cerca di realizzare al meglio il fine primario, cioè l’attuazione della sovranità popolare, assicurando però livelli minimi di salvaguardia delle altre esigenze.



Lei prima ha elencato una serie di sistemi elettorali stranieri: in cosa sono analoghi e in cosa sono differenti da quello veneto?
Tutti gli schemi stranieri citati hanno finalità analoghe, ma sono esposti a due pericoli contrapposti: di non raggiungere l’obiettivo della governabilità oppure di sacrificare più del necessario le vere preferenze degli elettori e di aprire addirittura la strada alla dittatura della maggioranza. Per esempio, l’uninominale puro, tranne il caso irrealistico di due partiti soltanto, può non portare ad una sicura maggioranza in Parlamento; d’altro lato, esso può portare a tradire l’elettorato dando un peso enorme alla maggioranza (caso estremo: con il 51% in ogni seggio, la coalizione vincente annulla completamente l’opposizione, nonostante il suo 49% dei voti). Tali difetti sono presenti, sia pure attenuati, anche nel doppio turno applicato alle elezioni parlamentari, poiché esso forza gli elettori a convergere sui partiti maggiori ma con conseguenze incerte. Idem per il caso tedesco, dove c’è un implicito anche se tenue premio di maggioranza e dove già due volte è stato necessario ricorrere alla grande coalizione tra i due partiti maggiori (e lì funziona, per senso di responsabilità nazionale: funzionerebbe da noi, una volta usciti dalla drammatica crisi attuale?). Circa il sistema spagnolo, esso ha molte piccole circoscrizioni, senza recupero dei resti a livello superiore; in tal modo sacrifica i partiti minori e conferisce nascostamente un premio di maggioranza che può essere forte, come avvenuto nelle elezioni del 2011 in cui il Partito Popolare ha avuto il 53% dei seggi contro il 44% dei voti.

Quindi, qual è la sua conclusione?

Chi invoca sistemi stranieri per opporsi al premio di maggioranza, non si rende conto che anch’essi in realtà contengono tale premio, ma lo contengono in maniera implicita e con un’efficacia che potrebbe risultare insufficiente o eccessiva. Meglio cercare di coniugare le diverse esigenze del sistema elettorale aprendo ad un esplicito premio di coalizione secondo una formula predeterminata che assicuri il raggiungimento dell’obiettivo, senza errori per difetto o per eccesso.

Le proposte che si stanno discutendo ora assicurano questo risultato?
Prendiamo in esame la proposta Malan, che non assicura affatto un simile risultato. Essa prevede il premio fisso del 12,5% dei seggi anche alla coalizione o lista di maggioranza relativa con meno del 37,5% dei voti, che quindi non arriverebbe alla maggioranza assoluta dei seggi e dovrebbe cercare alleanze post elettorali. D’altro lato, e soprattutto, se la coalizione o lista arrivasse al 54,1% dei voti (e anche a meno, se passasse la richiesta del Pd e del politologo Sartori di aumentare il premio fisso), arriverebbe con il premio ai due terzi del Parlamento; potrebbe così modificare a proprio piacimento la Costituzione, senza necessità di acquisire il consenso della minoranza e senza possibilità di fare appello al popolo attraverso referendum. Questo è un reale pericolo per la democrazia. Si può essere sicuri che nessuno dei proponenti vuole crearlo né lo ritiene realistico per la prossima legislatura. Ma esso resterebbe possibile per il futuro. E non ci si tranquillizzi con l’idea che la legge si potrebbe modificare in ipotesi di pericolo diventato realistico, perché sarebbe una contraddizione logica: quando i favori dell’elettorato si dovessero spostare nettamente a favore di una coalizione, i parlamentari a questa aderenti si opporrebbero alla modifica della legge. C’è dunque un’unica soluzione: promuovere, qui e subito, una reazione popolare che induca il Parlamento a rigettare la proposta in esame.