La (mezza) discesa in campo di Luca di Montezemolo è stata annunciata un’ora prima che Silvio Berlusconi comunicasse la sua (mezza) decisione di non ri-candidarsi. Premesso che la sentenza Mediaset di Milano e i primi echi del voto siciliano hanno ri-scompaginato il quadro politico in poco più di cento ore, l’almeno parziale materializzazione di una “staffetta” molto annunciata fra il Cavaliere e il patron della Ferrari qualche riflessione la merita. La situazione è tuttavia molto diversa da come probabilmente entrambi l’avevano a lungo immaginata.
Appena nel 2008 Berlusconi riportava il suo terzo, netto successo elettorale, mentre Montezemolo concludeva in modo tutt’altro che insoddisfacente un quadriennio di presidenza in Confindustria, dopo il mandato “collateralista” di Antonio D’Amato che in fondo non aveva portato al centrodestra frutti reali in termini di radicamento nel mondo imprenditoriale. La stessa Fiat, di cui Montezemolo si era trovato a reggere la presidenza dopo l’improvvisa scomparsa di Umberto Agnelli, sembrava aver trovato in Sergio Marchionne uno stratega industriale a fianco del quale il presidente non sfigurava come uomo-immagine e “capitalista di relazione”.
Scomparsi Cuccia e gli Agnelli, un po’ declinanti alcuni banchieri in sintonia con Romano Prodi, un Berlusconi accettato perfino nel patto di sindacato di Mediobanca ha certamente preso in considerazione le evidenti ambizioni di Montezemolo, apparente elemento di sintesi e continuità fra la tradizione del capitalismo industriale nazionale e le nuove frontiere del “made in Italy”. La naturale proiezione mediatica di entrambi sembrava facilitare ulteriormente un possibile passaggio di consegne nella leadership di un’Azienda-Paese in cui Berlusconi – in fondo – ha tenuto assieme per un ventennio non diversamente da come la Fiat abbia contribuito a fare in passato: nell’eterno “liberalismo imperfetto” della democrazia industriale nazionale.
La crisi finanziaria – e non solo – ha però spazzato via anche quest’ipotesi, che attendeva di essere messa in cantiere. Basta guardare a chi e cosa è oggi Montezemolo, quasi letteralmente. Mentre la Fiat è diventata la proprietà lontana e non amata di Marchionne “l’Americano”, la Confindustria di Giorgio Squinzi sta facendo a meno della sua iscrizione senza soverchi problemi, dando più precisione alla sua autonomia di associazione delle “multinazionali tascabili” di ultima generazione. Montezemolo, d’altronde, ha deciso di lasciare proprio ora la presidenza di Ntv, concessionario dell’Alta velocità ferroviaria nel nuovo duopolio con le Fs. Una società dominata dal gestore pubblico francese Sncf, in asse con Intesa Sanpaolo e Generali, oltre agli imprenditori italiani Diego Della Valle, Gianni Punzo e Alberto Bombassei. Anche nella cabina di pilotaggio di “Italo”, Montezemolo ha dunque ricoperto una presidenza “di rappresentanza” ma con ben poco “appeal”: “intermediario” dell’ennesima liberalizzazione invocata in Italia, ma per dar spazio alla fine a un gigante statale europeo.
Nel mese di ottobre, Montezemolo, si è ripetuto anche nel più spinoso dei business del momento in Italia: quello bancario. Ha accettato la vicepresidenza di UniCredit: la più grande banca italiana, quella più esposta sia alle tensioni dei mercati, sia alle ondate critiche dell’opinione pubblica. Per di più Montezemolo rappresenta al vertice di Piazza Cordusio al Aabar, il fondo sovrano di Abu Dhabi, uno degli emirati del Golfo. Ancora una volta: “power broking” a beneficio di investitori stranieri che scorrazzano attraverso l’Azienda-Italia bombardata a colpi di “spread”. Non sorprende che “Italia Futura” – il “think tank” con cui Montezemolo si ripromette di partecipare alla svolta politica attesa nel 2013 – si stia muovendo nei fatti a sostegno (forse non richiesto e neppure gradito) del premier Mario Monti: il quale è sempre meno immune dalle riserve di chi ritiene di aver visto nell’intero governo tecnico, lungo l’ultimo anno, soltanto un intermediario passivo “dei mercati (cioè di Wall Street e della City)” e “dell’Europa (cioè della Germania)”.
Berlusconi, dal canto suo, non può disporre di quell’eredità politica di cui Montezemolo sperava di essere destinatario. Né, certamente, il Cavaliere può vedere in quei residui “poteri forti”, fra i quali Montezemolo tuttora si aggira, dei punti d’appoggio per il suo futuro politico: sia esso un disimpegno il più possibile morbido (e questa sembrava la prospettiva, almeno prima della sentenza Mediaset, che ha inequivocabilmente decretato l’inconsistenza delle garanzie del Quirinale sul sistema giudiziario), sia un’estrema resistenza personalistica e populistica come quella che pare prendere forma nelle ultime, affannose ore. Quando – peraltro – il barometro siciliano sembra confermare le attese più preoccupanti sulle miscele fra crisi economica, coltivazione antipolitica della società e azione della grande criminalità organizzata.