Ho incontrato due emissari di un importante fondo di investimento, venuti in Italia per fare il solito giro e raccogliere umori, opinioni, idee su cosa succede in questo Paese. Dalla chiacchierata del tutto informale, ho potuto captare la loro percezione e, attraverso questa, gli umori che circolano sull’altra sponda dell’Atlantico, in particolare a Wall Street. Diretti, veloci di pensiero e parole come sono gli americani, bravissimi a destreggiarsi in mezzo ai nostri bizantinismi, sanno andare subito al sodo, semplificare il complesso senza banalizzarlo.



In sostanza, la loro idea è questa. Adesso tocca alla Spagna. Ha preso le sue decisioni per tagliare un disavanzo arrivato al 7% del prodotto lordo, per colpa della recessione, ma anche perché, al di là delle parole e delle sceneggiate, finora non è stato fatto abbastanza per ridurlo. Bene, ma Madrid ha bisogno dell’aiuto europeo, forse lo chiederà a novembre dopo le elezioni in Galizia, feudo del primo ministro Mariano Rajoy. Ieri il governo ha smentito che sia imminente, in realtà si comincia già a discutere le condizioni alle quali potrà ottenerlo. Vedremo come andrà il negoziato, gli spagnoli in ogni caso faranno da apripista e il loro test diventerà il benchmark per tutti gli altri paesi.



All’Italia adesso non servono aiuti, però diventeranno necessari al più tardi a primavera, in sostanza mentre la campagna elettorale entrerà nel vivo. Molti si aspettano un nuovo rally contro il debito sovrano non per qualche complotto pluto-giudaico-massonico, ma perché il debito è ancora lì, un macigno pari al 127% del prodotto lordo annuo. E sta ancora lì il disavanzo sottoposto a un effetto fisarmonica: si contrae per le misure di austerità (tasse e tagli) e si espande proprio in conseguenza di quelle stesse scelte che aggravano la recessione e aumentano i disoccupati (senza contare l’effetto perverso dello spread che porterà a 91 miliardi gli interessi da pagare l’anno prossimo).



Questo è lo scenario che domina il semestre del voto. Quindi il problema diventa non tanto se chiedere aiuto, ma come e quando. E soprattutto chi lo chiederà. Se precipita la situazione sui mercati, a quel punto non resta che alzare bandiera bianca e gli elettori finiranno per apprezzare chi lo farà per primo e con grande onestà. Ma anche se non arriviamo di nuovo sull’orlo del baratro, è chiaro che in cima all’agenda della nuova legislatura non ci sarà né la riduzione delle tasse, né la crescita, ma ancora e sempre il debito. Ci vuole una personalità politica che abbia il coraggio di dire chiaramente cosa vuol fare non per ridurre o contenere, ma per picconare la montagna di titoli (un miliardo 633 milioni l’ultima stima del Tesoro) che l’Italia getta sul mercato allo scopo di finanziare le spese dello Stato. Oggi non esiste. Tanto più, dunque, l’aiuto europeo è dietro l’angolo.

Può accadere che nessuna delle forze politiche attualmente in Parlamento (e tanto meno quelle che sono fuori e fanno propaganda a buon mercato) se la senta di gridare il re è nudo, per paura di essere messa alla gogna dal populismo rampante. E si cerchi di rinviare tutto al dopo. Un non senso. Se vincesse il Pd, il quale ha intenzione di rivedere la riforma delle pensioni e quella del lavoro, vuole ridurre le tasse sui salari e salvare la spesa dei comuni e delle regioni, sarebbe in grado di negoziare l’aiuto con la Ue e la Bce accettando le condizioni certo non espansive di Bruxelles e Francoforte? E se prevalesse una destra che agita di nuovo l’antieuropeismo? Non ne parliamo nemmeno.

Potrebbe scaturire lo scenario che molti già dipingono: non vince nessuno e si fa una grande coalizione guidata da Monti. Ma anche in questa prospettiva, sarebbe meglio se la nuova legislatura nascesse libera da ipoteche e pronta a varare un programma di riforme, a cominciare dal taglio del debito per il quale occorre un consenso davvero molto ampio, preparando un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile.

Ecco, allora, che si fa strada un’ipotesi diversa: sarà Monti, come ultimo atto del suo mandato e come ponte per aprire la prossima legislatura, a chiedere e contrattare l’aiuto europeo. Meglio se lo fa senza la pressione degli eventi, cioè non sotto l’attacco dei mercati, con la spada di Damocle di una nuova lettera d’intenti come quella dell’estate 2011. Anzi, la condizione ideale sarebbe discuterne in modo razionale non appena la Spagna avrà chiuso il suo dossier, intavolando già un dialogo sincero con la Germania, la Francia e gli altri membri dell’Eurozona. Senza ripropone la solita sceneggiatura di un’Italia che reagisce solo di fronte all’emergenza, incapace di prevenirla o anticiparla.

Il presidente del Consiglio tutte queste cose le sa e forse dovrebbe mettere al lavoro nella sua war room gli uomini del Tesoro e quelli della Farnesina. Perché una operazione del genere ha forti connotati anche di politica estera, per le implicazioni politiche che porta con sé. Monti è l’unico che può farlo, perché in Europa lo stanno a sentire; la Merkel non è sempre d’accordo, ma si fida di lui; tra banchieri e finanzieri gode di una buona immagine, come dimostra il suo ultimo giro a New York; e la febbre del voto non ha ancora infiammato del tutto la politica, anzi, i partiti e i leader di questa strana maggioranza ABC (Alfano, Bersani, Casini) hanno tutto l’interesse di arrivare a primavera senza il ricatto dei mercati.

Scenari, ragionamenti ipotetici, anche gli uomini di finanza leggono i segni. Anzi, è proprio questo il loro ruolo, aruspici del secondo millennio, con meno probabilità di azzeccarci dei loro antenati etruschi, perché il volo degli uccelli segue una rotta ben definita, mentre il comportamento degli uomini è erratico, variabile, lunare, come la volontà.

L’Italia è un Paese in cui tutti vengono e nessuno investe. Non è sempre stato così, dicono i miei interlocutori. E loro sono qui anche perché non lo sia più in futuro. Ma, aggiungono, il futuro è nelle nostre mani non nelle loro.

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