Chissà se il vecchio “calabrone” italiano riuscirà a volare oltre questo disastro politico. È una speranza, ma che si fa sempre più flebile. Perché di disastro si parla tra vecchi analisti della politica, tra i routiniers del “transatlantico” di Montecitorio, tra i “guardoni” della cosa pubblica che hanno calcato i pavimenti delle redazioni giornalistiche più nobili e più scassate. Perché di disastro si deve parlare di fronte al risultato elettorale complessivo della Sicilia e ai possibili, quasi inevitabili effetti che avrà sull’intero quadro politico nazionale. Un disastro che coinvolge tutti gli attuali protagonisti della politica italiana, dal “governo dei tecnici” ai partiti, ai leader di questa cosiddetta seconda Repubblica, che ormai è entrata nella parte terminale della sua agonia. Peppino Caldarola ha una nobile storia politica di sinistra alle spalle. È stato un grande giornalista, un bravo parlamentare del Partito democratico, è uno spirito libero che ha sempre detto quello che pensava. E non è affatto cambiato con il passare degli anni. Oggi è un uomo preoccupato che vede un “futuro drammatico” per il Paese. E se gli chiedi: il drammatico lo mettiamo tra virgolette, resta tra noi? Lui risponde: “Lo metta pure sul conto mio, perché è quello che penso e prevedo”.



Eppure Pier Luigi Bersani sembrava contento della vittoria in Sicilia della lista Pd-Udc e della nomina a presidente della Regione di Rosario Crocetta.

Ma io posso comprendere che Bersani difenda un risultato, posso capire che voglia portare a casa il risultato. Ma non è possibile che non si renda conto, che non veda con i suoi occhi il disastro che è avvenuto. Lo stesso Partito democratico, che in teoria ha vinto le elezioni, secondo l’Istituto Cattaneo ha dimezzato i suoi voti, ha dimezzato la sua forza.



A suo parere come si può definire quello che è avvenuto?

Proprio con la parola disastro. Qui si stanno facendo i calcoli e i discorsi sulla vittoria dell’alleanza tra progressisti e riformisti, con una giunta siciliana che non è in grado di governare se non con alleanze di carattere acrobatico. Si parla, come se nulla fosse, del fatto che Beppe Grillo guida un movimento che oggi è la prima forza politica della Regione Sicilia. E non si tiene conto di una cosa ancora più grave: dell’astensionismo che ha battuto ogni record storico, che ha superato il 50 percento degli aventi diritto al voto. Si assiste addirittura a un fatto clamoroso: neppure Grillo, con la sua antipolitica, con la sua protesta anti-sistema, che viene definita di carattere populistico, riesce a coinvolgere la gente, portare la gente a votare. È questo che mi ha fatto più impressione, perché significa che c’è la completa disaffezione, il completo rifiuto di tutto e di tutti: governo, partiti, politica e pure dell’antipolitica.



Lei vede in tutto questo un inevitabile riflesso sul piano nazionale? 

È impossibile non vederlo e non prevederlo. Il risultato politico siciliano è stato caratterizzato da tre elementi: la crescita dell’astensionismo, la crescita di un movimento anti-sistema, la presenza, con il Pd, di un fragile argine. Tutti questi tre fattori si ripeteranno sul quadro politico nazionale. Anche l’argine del Pd diventerà sempre più fragile, sarà come un sacchetto di sabbia di fronte a un’alluvione.

Ci potrebbero essere anche ripercussioni sull’attuale “governo dei tecnici”?

Credo che sia inevitabile che di fronte a una crisi della politica di questa dimensione, al rifiuto che sta montando sempre di più nel Paese, con la crisi che ha investito e frammentato il centrodestra dopo l’ultima dichiarazione di Silvio Berlusconi, il governo vada incontro a un incidente parlamentare. Già adesso il governo non è in buone condizioni, ha una base parlamentare più limitata, insomma è un governo più fragile. E qui si apre un altro discorso.

Quale, Caldarola?

A me pare che i partiti siano veramente poco lungimiranti. Se si va a votare alla naturale scadenza elettorale, si sovrappongono due momenti delicatissimi: quello di una crisi politica che si può vedere dal test siciliano e quello della nomina del nuovo Presidente della Repubblica. È difficile immaginare come si possa gestire una crisi politica di tale portata con la carica al Quirinale che è vacante, che deve essere rinnovata. Quanto meno, realismo vorrebbe che i due momenti venissero separati per non aggiungere confusione alla confusione.

Non è la prima volta che attraversiamo una crisi di questo tipo. Il 1992-1994 è stata una grave crisi politica che ha investito tutta la classe dirigente del Paese, provocando un ricambio che era impensabile.

No, questa crisi è più grave di quella avvenuta nel 1992-1994. In quella circostanza fu di fatto liquidata una classe politica, una serie di partiti scomparvero, alcuni leader uscirono di scena. Ma se ben si ripensa a quella stagione, si vedeva che esistevano forze alternative, forze politiche che potevano sostituire la classe politica della prima Repubblica. Lasciamo perdere come è andata a finire. Parlo di quel momento e di quella crisi, che poteva avere anche uno sbocco possibile. Ma oggi? Quale alternativa si può mettere in campo? Qui siamo di fronte a un rifiuto totale, a una disaffezione totale. È proprio per questa ragione che sono preoccupato, pessimista, e prevedo un futuro drammatico per questo Paese.

Che cosa sarebbe necessario?

Ci vorrebbe un grande appello alle persone, uno scatto di reni dei partiti, un rinnovato spirito di partecipazione e la volontà di costruire qualche cosa. Ci vorrebbe almeno questo. Io mi aspetto almeno questo. Sarebbe una presa di coscienza, un atto di coraggio di fronte a un disastro politico di tali proporzioni.

(Gianluigi Da Rold)