Quelli di Andreotti, almeno, erano alternativi. Quando il divo Giulio coniò l’immagine della politica dei due forni, si riferiva a una scelta che la Democrazia Cristiana poteva fare tra il cucinare il pane (del governo) in quello di sinistra, socialista, o in quello di destra, liberale; in altri termini, giostrare sulle alleanze. Bobo Maroni al “o-o” sostituisce l’”e-e”: cucinare la pagnotta padana nel forno lombardo assieme al Pdl, e in quello romano senza. Con il chiaro obiettivo di servire comunque una consistente e remunerativa pietanza politica sulla tavola di una Lega che a causa prima di tutto delle sue indigestioni interne ha perso il posto di commensale privilegiato a fianco del ricco Epulone-Berlusconi.
Il capolinea cui mira il nuovo segretario del Carroccio attraverso questo percorso dissociato è chiarissimo, e d’altra parte egli stesso non ne fa mistero: arrivare a governare le tre grandi regioni del nord, aggiungendo la Lombardia a Veneto e Piemonte. Per dare vita a una grande euro regione, dice lui: tutto da dimostrare, il passaggio anche istituzionale non è poi così semplice. In realtà, da uomo pratico che ha definitivamente archiviato gli altisonanti proclami di Bossi a partire dalla secessione, Maroni si pone un obiettivo meno roboante ma non meno concreto: fare della Lega il partito di riferimento del settentrione; ma al tempo stesso prendere le distanze dal governo nazionale del dopo-politiche 2013, quale che esso sia, nella speranza che esso comunque fallisca, e nel calcolo che in tal modo il Carroccio riesca a incamerare i dividendi dello scontento del Paese.
Il doppio obiettivo è peraltro tattico, oltre che stategico. Con la legge elettorale vigente per le regionali, basta prendere anche un solo voto più degli avversari per aggiudicarsi la presidenza. Se Lega e Pdl corressero insieme, non ci sarebbe verosimilmente partita. Ma se i due partiti andassero ciascuno per proprio conto, il candidato di un centrosinistra unito avrebbe concrete possibilità di spuntarla, a maggior ragione se il Pdl si spaccasse in presenza di una candidatura Albertini (come accaduto poche settimane fa in Sicilia con Miccichè); né Maroni può illudersi che la sola alleanza con le liste civiche sia garanzia sufficiente. Stare insieme con il Pdl, o anche solo con ciò che ne resta, gli darebbe invece un bonus pressoché decisivo.
Ma il segretario del Carroccio non può certo riproporre questo schema a livello nazionale, dopo le sparate continue contro la scelta dei “berluscones” di appoggiare il governo Monti; né può lasciare il monopolio della protesta a Grillo, che già gli ha eroso un’ampia fetta di base elettorale. Da qui il paradosso di un Carroccio, vistoso nel caso dell’election-day, che lo stesso giorno si presenterebbe insieme al Pdl in Lombardia, e contro il Pdl a livello nazionale. Ma nell’odierna politica italiana, ormai, i paradossi sono tali e tanti che neppure questo desterebbe meraviglia.
Un po’ più di stupore desta semmai l’affermazione di Maroni che un accordo con il partito di Berlusconi in terra lombarda sarebbe motivato anche dal “rispetto della nostra storia”. Il neo leader leghista non può dimenticare che in questa storia rientrano anche i 14 consiglieri regionali di centrodestra indagati nel corso della legislatura, inclusi alcuni leghisti a partire dal presidente del Consiglio. Né può dimenticare che la base del suo partito è particolarmente sensibile alla questione morale. Le scope di Bergamo, diventate il simbolo della nuova Lega 2.0, non si possono usare per nascondere la polvere sotto il tappeto.