Caro direttore, la tesi prevalente in molti critici “da sinistra” è che Renzi sia un Berlusconi di sinistra. Piero Barcellona esprime molto compiutamente questa tesi. Renzi rappresentante della società liquida, tutta comunicazione, nessun contenuto, nessuna infrastruttura culturale e organizzativa. Insomma, se vincesse, continuerebbe il ventennio berlusconiano. Sotto il vestito niente! Donde, l’appoggio a Bersani.



In realtà, Renzi ha finalmente sbloccato e rese esplicite le poste in gioco che il vecchio Pci si trovò dinnanzi nel 1989 e che riuscì a nascondere sotto il tappeto, complice la contemporanea caduta dell’intero arco costituzionale. Sicché il paradosso straordinario che prese corpo fu che la dissoluzione del sistema degli Stati comunisti – il socialismo reale – gettò in una crisi irreversibile la Democrazia cristiana, il Partito socialista e tutti gli altri, eccetto il Pci. Che con l’abile salto della quaglia occhettiano continuò a chiamarsi Pci con l’aggiunta del trattino che lo trasformava in Pci-Pds, continuò a mantenere la falce e martello, sia pure rimpicciolita, ai piedi di una svettante quercia. Non che i dilemmi non fossero chiari fin da allora. Per la sinistra italiana si apriva un bivio: diventare una forza a tutti gli effetti socialdemocratica classica sul modello tedesco oppure una forza del socialismo riformista, migliorista, liberale?



Sotto queste formulazioni teoriche stavano opzioni diverse circa il ruolo dello Stato rispetto alla società civile e alle persone, il ruolo dei sindacati, il ruolo dei partiti e ipotesi diverse di policies. Nello schema socialdemocratico classico – che però proprio in quegli anni i tedeschi stavano abbandonando in nome della Neue Mitte, il nuovo centro di Schroeder, mentre gli inglesi approdavano al New Labour di Blair – Stato del welfare, partito e sindacato stavano stretti in un nesso stringente. In Italia era il modello emiliano quello che era arrivato più vicino a quello tedesco. Una presa d’acciaio sulla società civile, una koiné di pensiero diffusa e profonda, un sistema di potere inossidabile. Il tutto fortemente mediato dal partito, che diventava il punto di intersezione degli interessi e di comando effettivo, soft nelle forme, ma penetrante e insindacabile.



Da settori del migliorismo e dai settori cattolici, ormai messi in libertà dalla crisi della Dc, proveniva un’altra opzione, che aveva quale base comune un orientamento socialista-liberale o cattolico-sturziano liberale: primato della società civile e della persona, sussidiarietà dello Stato, partiti meno totalitari, sottoposti alle leggi e aperti allo scambio con la società civile.

Questi erano i dilemmi. Occhetto scelse una terza via. No alla socialdemocrazia classica – contro l’odiato Craxi -, no al socialismo liberale – contro il liberalismo borghese. In realtà Occhetto per una fase puntò su Gorbaciov e sul “nuovo comunismo”. Ma quando la storia impietosamente fece giustizia di questa illusione, Occhetto procedette confusamente verso il disastro della “gioiosa macchina da guerra” del 1994.

L’avvento del berlusconismo ha funzionato da alibi per due decenni. A poco a poco il vecchio Pci approdò, con il Congresso di Pesaro del 2001, all’opzione riformista, ma nella sua versione vetero. Il Pci, con il nome di Ds, arrivava a Bad Godesberg con più di quarant’anni di ritardo, mentre proprio di là la socialdemocrazia europea stava levando le tende. E’ quella la visione di Bersani. Che sia arrivato ai vertici del Pci, primo emiliano nella storia del Pci, è il segno dell’egemonia emiliano-romagnola: grande partito, alto numero di iscritti, potenza delle cooperative, sindacati, capacità di imbrigliare nel sistema di potere i potenziali antagonisti. Il tentativo di Prodi di andare oltre quel modello fu fatto fallire dall’interno, non certo da Berlusconi. Occorre anche dire che una parte almeno della componente prodiana era per così dire predisposta all’aggancio con la vetero-socialdemocrazia. Così che non stupisce oggi che tra i fan più entusiasti si annoverino Rosy Bindi e Enrico Letta. La necessità della battaglia contro Berlusconi appiattì le differenze e abbassò i toni della battaglia culturale. Ora che il berlusconismo sta esplodendo, esplode anche l’incerto assetto culturale del Pd.

Renzi ripropone, nel contesto culturale e storico-politico di oggi, il dilemma del 1989 e lo scioglie in direzione di una sinistra liberale, punto di intersezione tra socialismo liberale e cattolicesimo liberale. Ovvio che si tratta di sviluppare le opzioni culturali in punti di programma specifici e che il lavorio da fare resta ancora molto. E tuttavia Renzi ha incominciato non a caso dalla tenuta della nomenklatura. Perché essa è il garante più certo di tutto l’impianto istituzionale-partitico-culturale del vecchio Pci, cui il vorticoso cambio di sigle non ha portato una trasformazione culturale e perciò neppure di gruppo dirigente. Non si tratta affatto di una battaglia giovanilista contro gli anziani, anche se è evidente che questa nomenklatura ha la stessa longevità di quella sovietica. E’ una battaglia tra idee innovative liberali e vecchie idee socialdemocratiche.

Intanto, sul ruolo dei partiti: Renzi ne chiede una rigenerazione che passa per un ridimensionamento del loro potere rispetto allo Stato, all’amministrazione (perché i partiti devono nominare i primari di ospedale?!), alla società civile. Di qui la richiesta di eliminare il finanziamento pubblico, già vittoriosa nel referendum del 1992, ma aggirata furbescamente dai partiti. Dietro sta l’idea che la politica non nasce dai partiti, sgorga dalle persone e della società civile. Ed è esattamente questa la cultura che tutta l’antica generazione comunista fa fatica ad assimilare. In forza di questa cultura, che combina hegelismo e marxismo, non solo lo Stato è il luogo supremo della sintesi, ma anche il partito, per ricaduta, diviene il protettore della società civile, il suo garante. Certo, perché degli individui e della società civile occorre diffidare!

Torna qui, senza particolare consapevolezza, l’idea luterana dell’incapacità totale dell’uomo di cogliere il vero, il bene, il bello; a questa incapacità solo lo Stato e il partito di stato possono sopperire. Dietro “l’ottimismo sventato” di Renzi sta invece l’idea che le persone e la società possono fare molto senza protettori e che la solidarietà tra le persone non debba necessariamente pietrificarsi in una struttura partito-burocratica. Avendone fatto parte, comprendo le angosce di quel mondo, che trema all’idea di un partito diverso, con una configurazione più leggera. Ma appunto qui entrano in questione temi più radicali. L’antropologia dei partiti comunisti e vetero-socialdemocratici è l’antropologia autoredentrice della politica, che non pensa “il limite” e pratica l’onnipotenza.

Non credo di essere particolarmente malizioso verso un Maestro come Barcellona, se mi permetto di segnalare la contraddizione tra il suo allarme per l’emergenza antropologica (di cui alla Lettera all’Avvenire del 16 ottobre 2011) e l’endorsement per una posizione culturale e politica, che, non da sola, si intende!, l’ha generata o, quantomeno, non ne ha compreso la portata drammatica. Non che io creda che Renzi, posto che vinca il confronto con tutto il vecchio apparato, sia poi in grado di percorrere da solo e fino in fondo l’altra strada. Ma almeno ha avuto il coraggio di segnalarla. Non mi faccio illusioni sulla capacità della politica, dei politici e dei partiti fare i passi decisivi, perciò non investo a occhi chiusi neppure su Renzi. Ma non posso fare a meno di constatare che nel suo messaggio e nella battaglia aspra che sta conducendo egli riconosce alla società civile, alle persone, ai movimenti culturali, alle comunità e alle minoranze creative un ruolo, che finora la politica ha preteso − totalitariamente − solo per sè.