Il partito radicale è stato certamente uno dei protagonisti più in vista in iniziative culturali che hanno scosso e mobilitato l’opinione pubblica negli anni settanta e ottanta. Attualmente, la stessa proposta per la riduzione immediata del sovrannumero nelle carceri attraverso il ricorso all’amnistia, non manca di visibilità e di forte impatto sociale. La protesta di Marco Pannella, nonostante le incursioni di Grillo, l’andamento altalenante dello spread ed una delle più incerte crisi politiche degli ultimi decenni, resta comunque visibile e, come è molto spesso accaduto, si rivela capace di ottenere spazio mediatico.



Proprio per questo rischiano di essere troppo presto dimenticate le significative, recenti dichiarazioni di Emma Bonino a Radio Radicale. Secondo la nota esponente di questo partito non è affatto evidente la riproposizione di una lista elettorale alle prossime elezioni: c’è il rischio che l’offerta radicale finisca per rispondere ad una domanda che nessuno le fa e i radicali siano confinati in una posizione di rappresentanza nobile, riconosciuta da molti come tutela della legalità, ma non al punto da suscitare un movimento culturale, attirare nuovi consensi e, soprattutto, nuove adesioni.



L’affermazione – per quanto vada letta nel contesto di una strategia di necessaria prudenza a fronte dell’incertezza del quadro politico – non manca di indurre a qualche riflessione. Le battaglie radicali non hanno mancato, né mancano, di registrare concreti successi, ampiamente verificabili. Si potrebbe anzi arrivare a pensare che gli italiani, oggi, siano addirittura più “radicali” (cioè laici, antiproibizionisti, anticlericali) di quanto non lo fossero trent’anni fa. Non esiste forse una laicizzazione diffusa e di massa che costituisce il dato più che visibile di una secolarizzazione compiuta? Perché il partito radicale, che di questa laicizzazione è uno degli esponenti più lucidi, dovrebbe registrare addirittura una crisi di ruolo, fino al punto da interrogarsi sul senso di una sua partecipazione elettorale? Ovviamente è difficile pensare che una personalità con la storia e l’esperienza di Emma Bonino ponga in luce un problema inesistente. È legittimo allora ritenere che, forse, l’Italia non è diventata “radicale” come si pensava o come i radicali e tutti coloro che ne hanno condiviso i principi speravano.



Dietro le perplessità di Emma Bonino c’è la consapevolezza di una società nella quale l’individualità non si è tradotta in assunzione di responsabilità, in preoccupazione per l’altro, ma in semplice autoreferenzialità. Il superamento dei vincoli non si è coniugato con una nuova dinamica fondativa. Il soggetto liberato non sembra aver fatto uso della sua libertà per emanciparsi; la levata delle proibizioni non ne ha incrementato la progettualità, almeno non come si credeva e non quanto si auspicava. Proprio per questo l’Italia laica non ha significato necessariamente l’Italia emancipata dal potere, pronta ad investirsi nella partecipazione democratica.

Affinché si sviluppino partecipazione e responsabilità occorre che la democrazia si coniughi con la progettualità, occorre cioè che la libertà che la democrazia rende possibile, alimenti i progetti di vita di ciascuno, serva cioè a costruire e ad edificare. Una libertà senza progettualità, dove all’io fondatore responsabile si sostituisce un io in fuga dalle responsabilità collettive, cioè un “io minimo”, non porta affatto ad una società laica come Emma Bonino poteva concepirla, ma semplicemente ad un aggregato di soggetti narcisisticamente piegati sul proprio interesse personale ed altrettanto indifferenti a qualsiasi destino collettivo. Ora, per quanto sia discutibile formulare un simile giudizio, non c’è dubbio che mai come adesso la crisi della politica incroci un ambito ben più vasto di indifferenza strutturale.

Ma il recupero della progettualità si alimenta di principi alti, di riconoscimenti di una natura che non si risolve nel quotidiano. Affinché i margini di libertà si convertano in progetti di vita, dei quali la partecipazione politica è solo uno degli aspetti, occorre che sia riconosciuta e legittimata una tensione dell’uomo verso l’infinito. Occorre che, da qualche parte, esistano un Vero ed un Bene, non relativi. Occorre che ci sia una natura umana da coltivare che non sia riducibile ad una semplice costruzione mentale, magari socialmente condivisa. Relativizzare tutto, ridurre la realtà al privato quotidiano, ritenere che tutto si chiuda nel perimetro della propria esistenza personale, sono le basi per qualsiasi dimissione, anche dalla politica.