La confusione che regna nel panorama politico italiano ha radici profonde e non decifrabili senza lo spazio di una più lunga e articolata riflessione. In alternativa, si può provare a “spacchettare” l’insieme dei problemi e chiedersi, senza troppa enfasi, che cosa sia corretto aspettarci dalle urne, almeno come prospettiva istituzionale. 



Nonostante le manovre in atto (primarie, conferenze stampa, dichiarazioni di “entrata” o “uscita” dalla scena politica) chiaramente volte a dare messaggi all’elettorato circa il futuro capo del Governo come fattore che ne dovrebbe influenzare i comportamenti, una questione da tenere presente è che il 24 febbraio (forse) si andrà alle urne per eleggere i nostri rappresentanti in Parlamento. Punto e a capo. 



Benché la connessione tra la scelta dei parlamentari da parte del popolo e le scelte che verranno da costoro compiute quando si tratterà di formare il Governo possa essere considerata quasi naturale, mai come oggi i due momenti appaiono istituzionalmente lontani tra loro. Non sapendo quale sarà il responso delle urne – non in generale (come da sondaggi, quanto mai mutevoli e soggettivi) ma come composizione specifica e dettagliata di Camera e Senato – gli aspiranti premier (o presunti tali) navigano a vista, fanno dichiarazioni, rilasciano interviste, si dicono “disposti” a governare se richiesti, formulano ante litteram programmi politici mentre, in realtà, si trovano costretti a stare in surplace, rischiando così di cadere prima ancora del calcio di inizio, logorati dalle loro stesse aspettative. 



Manovre di questo genere sarebbero ragionevoli in presenza di due schieramenti che si fronteggiano sulla base di scelte politiche chiare e parzialmente differenziate tra loro, mentre lo sono molto meno in caso di multipartitismo e, per di più, di un multipartitismo altamente sfilacciato e dai confini incerti come quello nostrano.

Ma, allora, non sarebbe più ragionevole concentrarsi sul Parlamento e lasciare in secondo piano la scelta del premier? 

Se i partiti non lo fanno è perché, da un lato, è più semplice fare scegliere agli elettori una persona che un programma ma, dall’altro, è anche e soprattutto perché la Seconda Repubblica, forzando la mano del sistema elettorale, ha fatto sì che l’individuazione del premier avvenga prima delle elezioni e non dopo, come invece accadeva in passato. Abbiamo alle spalle vent’anni di cultura politica che ci forza a pensare in questo modo, avendo immesso nel sistema elettorale una torsione tutta interna allo stesso, che ne ha fatto da strumento di scelta dei parlamentari uno strumento quasi plebiscitario di scelta del premier. Non sta scritto da nessuna parte che debba essere così ma, se nei simboli dei partiti appare il nome del candidato premier, è su questo che si incentrano le discussioni e non su quanto i partiti propongono. Se questo nome compare, si ingenera nell’elettore l’aspettativa che il Capo dello Stato si rimetterà alla volontà popolare e non giochi alcun ruolo nel dare, finite le elezioni, l’incarico all’eletto dal popolo. 

L’ultima tornata elettorale sembrava aver sancito la vittoria di questo schema istituzionale, visto che le urne (ma anche le tristi logiche del Porcellum) avevano creato i presupposti perché si facesse il grande passo. Ma non è stato così perché il sistema elettorale, da solo, non può supportare un cambio radicale nella forma di governo; occorre ben altro: partiti e coalizioni solide e cambiamenti anche costituzionali, oltre che di natura elettorale.

In altre parole, se le schede elettorali “parlano”, la Costituzione in materia tace, non fa cioè da appoggio con la sua autorità ultima alla coincidenza tra elezione dei parlamentari e scelta del premier. Al contrario, essa lascia al Parlamento e al Presidente della Repubblica di dare incarichi e di conferire fiducia; in particolare, al Presidente resta un ampio potere di scelta, non vincolato neppure dall’appartenenza del designato premier ad uno dei rami del Parlamento. Insomma, per una serie di cause qui non ripercorribili per extenso, la Prima Repubblica è sopravvissuta al disfacimento della Seconda, quella che aveva camminato a grandi passi verso il “modello Westminster” (due schieramenti, due candidati premier, un solo momento elettorale in grado di  determinare la composizione del Parlamento e il capo del Governo), ma che poi è inciampata nell’ignavia della classe di governo e nella litigiosità mai sopita dei componenti della coalizione vincente, che ha riportato tutti ai blocchi di partenza. 

E, pertanto, se oggi Monti si dà disponibile − ma con estrema cautela − ad essere di nuovo capo del Governo, nulla questio; ben venga se si fa carico di redigere una agenda che risulta essere una sorta di dichiarazione programmatica volta ad ottenere ante litteram la fiducia della maggioranza del  Parlamento. Queste sue esternazioni non entrano a sconvolgere le dinamiche costituzionali, rimaste invariate dal 1948 ad oggi, pur avendo attraversato il mare in tempesta di questi 60 anni di storia su fragile ma quanto mai resistente scialuppa. 

Fatte le elezioni nazionali, la palla passerà al Presidente e alla sua capacità di leggere i risultati elettorali che non saranno – è facile prevederlo – di agevole interpretazione, soprattutto per come si muoveranno i partiti. Delle dichiarazioni di oggi assai poco resterà, nonostante l’attenzione spasmodica che i media dedicano a frasi, dichiarazioni e agende dei vari leader, mentre è tragicamente probabile che si riproducano gli scenari noti: partiti disomogenei e litigiosi, incapaci di anteporre il bene del Paese ai loro interessi di piccolissimo cabotaggio. Questo è il vero pericolo per la democrazia in Italia. E per ora non sembra che la classe politica dia segno di esserne cosciente.